Sfatando le infauste previsioni meteorologiche e sfidando il caldo torrido, anche quest’anno molti triestini hanno commemorato l’anniversario dell’impiccagione di Nazario Sauro, avvenuta il 10 agosto 1916 a Pola, ove si svolse il terribile processo che portò alla condanna a morte dell’irredentista capodistriano.
«Associazioni patriottiche, di esuli istriani, fiumani e dalmati, combattentistiche e d’arma e tante persone comuni – afferma il Presidente del Comitato onoranze a Nazario Sauro Fulvio Sluga – si sono riunite nonostante il periodo vacanziero davanti al monumento che sul lungomare di Trieste ricorda il Tenente di Vascello Sauro, Medaglia d’oro al Valor Militare»
Sauro nacque il 20 settembre 1880 (decennale della breccia di Porta Pia) a Capodistria, località che all’epoca era sottoposta al dominio dell’Impero austro-ungarico, ma evidenziava una florida attività patriottica analogamente a quanto andava sviluppandosi tra fine Ottocento ed inizio Novecento nelle altre terre irredente, cioè non ancora redente dall’Austria ed annesse al Regno d’Italia: Trento, Trieste, Gorizia, Fiume, la Dalmazia ed il resto dell’Istria. Poco interessato a dedicarsi agli studi, Nazario dimostrò ben presto la vocazione per la professione marittima del padre, cominciando a lavorare con lui sulle imbarcazioni che operavano lungo la costa orientale dell’Adriatico. Ogni suo itinerario costituiva un’occasione per memorizzare correnti e secche, studiare insenature e approdi, con l’auspicio di mettere un giorno a frutto queste cognizioni a sostegno di un’azione della Marina da guerra italiana. Il suo amor di Patria coniugato ad un desiderio di giustizia sociale non trovava soddisfazione nel Partito Socialista, di vocazione internazionalista, bensì nelle idee di Giuseppe Mazzini: amante della libertà e dell’indipendenza, non lottava solamente per la sua terra, ma si identificava, con pieno spirito garibaldino, nelle analoghe lotte che si sviluppavano in altre terre sottoposte a dominazione straniera. Nei suoi viaggi su e giù per l’Adriatico entrò così in contatto con i patrioti albanesi che si opponevano al dominio dell’Impero ottomano e guardavano all’Italia con simpatia, vedendola come interlocutrice privilegiata per lo sviluppo e la salvaguardia di un’Albania indipendente. Tra il 1908 ed il 1912 Sauro non si limitò a rifornire di armi di contrabbando i guerriglieri: partecipò ad alcune scaramucce e chiamò la sua ultima figlia proprio Albania, a testimonianza dell’amore che provava per questa terra. I figli di Sauro e di Caterina Steffè, d’altro canto, avevano tutti ricevuto nomi particolarmente evocativi: Nino (come Bixio, il luogotenente di Giuseppe Garibaldi), Libero, Anita (come la moglie del generale nizzardo), Italo e Albania appunto.
Nel momento in cui l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 fece presagire lo scoppio del conflitto tra l’Austria-Ungheria e la Serbia, Sauro ed altri irredentisti abbandonarono le loro case per non finire arruolati nell’imperial-regio esercito ed esfiltrarono in Italia. Nel gennaio 1915 un terremoto sconvolse la Marsica, sicché Sauro ed i suoi compagni, inquadrati da Giovanni Giuriati, raggiunsero Avezzano e prestarono soccorso alla popolazione, contribuendo alla ricostruzione dei villaggi. Giunsero poi le Radiose giornate di maggio, culmine dell’interventismo: quasi presagendo la sorte che lo attendeva, Sauro affidò all’amico giornalista veneziano Silvio Stringari il 20 maggio 1915 due lettere, da consegnare rispettivamente alla moglie ed al primogenito in caso di morte in battaglia. Si tratta di due documenti in cui i sentimenti del padre di famiglia riconoscono la priorità della devozione all’Italia e rimane un testamento spirituale, profondo e commosso, ai congiunti più cari.
Dopo l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale, Sauro partecipò a oltre sessanta missioni, pilotando sommergibili, Mas e altro naviglio leggero nelle insenature del litorale giuliano, realizzando in particolare un raid nel Golfo di Trieste ed un’azione nel porticciolo di Parenzo in Istria, ove distrusse a cannonate gli hangar che ospitavano gli idrovolanti che periodicamente bombardavano Venezia. Fatale si sarebbe rivelata la missione a bordo del sottomarino Giacinto Pullino, che nella notte tra il 30 ed il 31 luglio 1916, nel tentativo di entrare nel Carnaro, si incagliò nei pressi del faro dello scoglio della Galiola. Temendo di essere fatto prigioniero dagli austriaci (qualora riconosciuto, rischiava il capestro in quanto disertore), abbandonò i suoi compagni di sventura e cercò di guadagnare la costa italiana a bordo di una piccola scialuppa con il favore delle correnti. Venne ugualmente catturato e processato: alcuni suoi concittadini in servizio militare, ex colleghi e perfino il cognato lo riconobbero e a nulla servì lo sforzo sovrumano che compirono madre e sorella, interpellate dal tribunale militare riunitosi a Pola, per non rivelare l’identità del proprio congiunto. «Di fronte alla possibilità di ricevere gli estremi conforti da parte di un sacerdote – spiega Piero Sardos Albertini, presidente della Famiglia Capodistriana, sodalizio degli esuli capodistriani nonché una delle realtà più attive del Comitato onoranze a Nazario Sauro assieme al Comitato provinciale di Trieste dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Sauro si rifiutò, dando origine alla diceria che fosse ateo. In realtà respinse don Tull perché costui si presentò in uniforme asburgica e non con la semplice veste talare, laddove riuscì a confessarsi di nascosto con un sacerdote italofono. Quest’ultimo avrebbe successivamente raccontato questa vicenda al Vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin, il quale la rivelò a mio padre, Lino Sardos Albertini (tra i fondatori dell’Unione degli Istriani), quand’era presidente dell’Azione Cattolica triestina»
Il successivo 10 agosto il boia Joseph Lang, che già aveva giustiziato Cesare Battisti a Trento ed era stato inviato da Vienna ancor prima che fosse pronunciata la sentenza, impiccò Nazario Sauro: «Mio padre Silvio, fante di marina ma in effetti semplice telegrafista – ricorda Tito Lucilio Sidari, presidente dell’Associazione Italiani di Pola e Istria – Libero Comune di Pola in Esilio – assistette all’impiccagione e mi raccontò che le ultime parole di Sauro furono davvero “Viva l’Italia!”» E a proposito della sigla che riunisce tradizionalmente gli esuli dalla città di Pola, ricordiamo che al termine della Grande guerra, nell’Istria finalmente unita all’Italia, la salma di Sauro, che era stata occultata in terra sconsacrata, ricevette onorevole sepoltura a Pola, ma avrebbe poi seguito l’esodo del 90% della popolazione giulòiano-dalmata. Allorché il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 assegnò pure il capoluogo istriano alla Jugoslavia, oltre 28.000 abitanti su quasi 32.000 esodarono ed in uno dei tanti mesti viaggi effettuati dalla nave Toscana trasportando famiglie intere con poche masserizie da Pola verso l’Italia, la bara di Sauro sarebbe giunta a Venezia per venire infine collocata al Tempio Votivo del Lido.