La pandemia da Covid-19 è da considerarsi uno dei periodi più complicati della storia della Repubblica: tra ospedali mal forniti, contagi e morti continui, imprese che fallivano e cittadini disperati, l’Italia ha dovuto fronteggiare ingenti difficoltà come non se ne vedevano dal secondo dopoguerra. E se un certo grado di scusabilità per l’immediatezza di scelte così complicate poteva all’epoca dei fatti essere accettato, più passa il tempo, più vengono fuori nuove informazioni e più aumentano le responsabilità in capo ai membri del governo giallo-rosso, le cui sciattezza e negligenza frammiste a dilettantismo, impreparazione e disistima, hanno provocato danni maggiori di quanti avrebbero dovuto normalmente aversi.
A riportare in auge la questione pandemia è un’inchiesta del quotidiano La Verità, che pubblica un’informativa dei carabinieri di Bergamo dalla quale, pur essendo estrapolata da un’altra inchiesta sulla gestione dei migranti, emergono importanti informazioni sulle primissime ore della pandemia, in particolare su quel periodo tra la metà di febbraio e il 9 marzo, inizio del lockdown, in cui si era capito che il Covid non era uno scherzo, ma a Palazzo Chigi si glissava l’argomento. Protagonista della vicenda il sindaco dem di Bergamo Giorgio Gori, dalle cui telefonate intercettate dagli inquirenti emergono importanti informazioni: Gori, come tutto il mondo dem, era preoccupato per una possibile chiusura totale, era contrario e spaventato per le intenzioni della Regione Lombardia a guida Attilio Fontana, che propendeva per la linea dura. Era fine febbraio, il bergamasco appariva come la zona più colpita e più i giorni passavano, più i casi aumentavano. Ma per Gori era “eccessivo” fermare tutto “per un solo caso di contagio”. Contrarietà a una eventuale zona rossa per Bergamo arrivavano anche da esponenti del governo: il 26 febbraio Antonio Misiani, viceministro dell’Economia, riteneva inutile la chiusura anticipata delle attività alle 18, mentre il 3 marzo rassicurava Gori sul fatto che il ministro Speranza non voleva inserire Bergamo nella zona rossa. Intanto, sono interessanti le conversazioni tra il sindaco e suo fratello Andrea, medico, che parlava di pressioni del governo su Fontana per riaprire le attività e, in un secondo momento, raccontava che l’unico ad aver recepito la gravità della situazione fosse il leghista stesso, senza però trovare ascolto a Roma. Il 6 marzo la débâcle di Gori stesso, che ammetteva al sindaco di Milano Giuseppe Sala che ormai una zona rossa a Bergamo sarebbe stata inutile, essendosi il virus già pienamente diffuso. La svolta l’8 marzo: secondo il presidente della Fondazione Fiera Milano Enrico Pazzali, solo dopo l’attenzione del presidente della Repubblica per i dati allarmanti comunicati da Fontana, Conte si sarebbe mosso per misure più restrittive.
Insomma, si aggrava la posizione del governo giallo-rosso, che sapeva ma non ha agito. Circoscrivere le zone maggiormente interessate dal contagio poteva essenzialmente essere la svolta, per salvare tantissime vite ed evitare chiusure peggiori, come il lockdown totale: le differenti entità del contagio nelle varie zone d’Italia in quei giorni richiedevano misure più efficaci a livello territoriale, come una divisione a fasce che si è avuta solo un anno dopo. Intanto, con gli ospedali già in tilt, mascherine che mancavano e posti in terapia intensiva di numero ignoto, il governo Conte, pure sotto le spinte della Regione Lombardia, ha scelto la strada del far finta di nulla, lasciando Bergamo e la Val di Susa alla deriva. Salvo poi pentirsene, ricorrendo a misure estreme in tutta la Nazione che, alla fine dei conti, neppure occorrevano, se non a ridurre alla canna del gas milioni di italiani in attesa di cassa integrazione. Altro che “modello Italia”!