Parlare di fascismo è un business: la doppia morale degli antifa’ che lucrano sui propri ideali

È proprio vero, al giorno d’oggi non sai mai di chi ti puoi fidare. Non sai mai se uno ci è o ci fa. Non sai mai se uno razzola così come predica. Quello che si vuole intendere è che dietro la morale che i soliti intellettuali ci propinano, con tutti i soliti discorsi su quanto sia bello essere iper-inclusivi e su quanto i cattivoni di destra siano razzisti e omofobi, si nasconde un giro di denaro che fa chiedere ai più se i tanti predicatori credono realmente in ciò che dicono o lo fanno soltanto per soldi.

Il business di Canfora e Scurati

Così, abbiamo trovato l’unico motivo valido e sensato in virtù del quale gli antifascisti in servizio permanente, quelli che a cadenza giornaliera si inventano sempre nuovi pericoli totalitari, parlano ancora, dopo 80 anni dalla sua caduta, di regime fascista e di deriva autoritaria: fare business. È marketing, sono soldi facili: parlare di fascismo, magari creando a sostegno una storia inventata ad hoc con la quale apparire vittime di un regime feroce ma inesistente nei fatti, attira il pubblico. Un sensazionalismo spudorato che non si fa scrupoli di sorta: non si domanda se, urlando alle derive, si danneggia l’immagine della Nazione agli occhi di partners e investitori internazionali; non si domanda neppure se è eticamente giusto inventare fake news e poi lucrarci. Ce lo racconta questa mattina un’inchiesta portata avanti dal Giornale. Con rapidi quanto semplici calcoli, il quotidiano ci riporta due tra i nomi più caldi del momento nell’ambiente radical-chic, Luciano Canfora e Antonio Scurati. Il primo vittima della querela di Giorgia Meloni, accusato di aver detto davanti a studenti liceali che la premier (prima ancora che lo diventasse) è una “neonazista nell’animo”, adducendo a sostegno persino tesi filosofiche. Le reazioni dei benpensanti sono state del tipo: “E-che-sarà-mai, è solo libertà di espressione”. Il secondo invece è vittima della censura del governo sulla Rai, privato della possibilità di leggere in diretta tv il suo monologo di un minuto da 1800 euro. Discorso che, a quanto pare dal rapporto durata/prezzo, avrebbe dovuto rivelare importanti verità sui misteri del mondo, ma che in realtà era soltanto la solita ciofeca condita di luoghi comuni sulla destra e classiche comparazioni tra il regime di Mussolini e il governo di Giorgia Meloni. Entrambi gli intellettuali hanno usufruito del grande lancio mediatico che questi episodi hanno riservato loro. Ed entrambi hanno pubblicato un loro libro sul fascismo. Ecco, con le loro vendite, secondo Il Giornale, sarebbero circa 5mila euro al mee gli introiti dei due. Ovviamente, nulla di male: ma vale la pena notare quanto “costa” essere vittime immaginarie di un regime che non esiste.

Ideali svenduti

Poi, dal fascismo alla resistenza è un attimo. Ed ecco che il Museo Nazionale della Resistenza di Milano voluto dall’ex ministro dem Dario Franceschini è costato 17 milioni di euro, mentre quello di Torino, pur lamentando una situazione di crisi, si scopre debitamente sovvenzionato dagli enti statali: nel 2022, ha ricevuto 82mila euro dal Comune, 100mila euro dalla Regione e 6mila dal Consiglio regionale. Non potevano essere dimenticati i Partigiani dall’Anpi, che nel 2022 hanno ricevuto contributi pari a 92mila euro dal Ministero della Difesa e 92mila euro dalla Regione Friuli Venezia Giulia per alcuni progetti. Per non parlare poi di eventi culturali e rassegne. Insomma, in generale, l’antifascismo è un business, che fiocca sovvenzioni, guadagni e finanziamenti statali. Tutto a norma, sia chiaro, ma se una battaglia si basa sulle idee, lucrarci non avvalora certo le tesi di chi la combatte.

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