Ancora un attacco ideologico all’Italia da parte del Consiglio d’Europa. Stavolta la richiesta arriva dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), che ha invitato il governo italiano a condurre «al più presto uno studio indipendente sul fenomeno della profilazione razziale nelle sue forze di polizia». Secondo l’ECRI, il fermo di persone «sulla base del colore della pelle, della presunta identità o religione» rappresenterebbe una minaccia ai valori europei.
Una dichiarazione grave, che apre scenari inquietanti. Perché dietro il paravento dell’antirazzismo, si rischia di legittimare un attacco frontale contro uno degli ultimi baluardi dello Stato: le forze dell’ordine, presidio concreto di legalità e sicurezza.
Sicurezza sotto accusa: l’ideologia sopra la realtà
Il cuore della questione non è solo politico, ma culturale. Chi indossa una divisa in Italia lo fa per servire la collettività, per difendere la legalità, non certo per perseguitare sulla base dell’origine etnica. Ma l’approccio dell’ECRI, che presuppone un razzismo “strutturale” nelle forze dell’ordine, trasforma la presunzione in colpa, la prevenzione in discriminazione.
Questo sguardo distorto si scontra con la realtà di centinaia di inchieste giudiziarie che raccontano tutt’altra storia. È qui che emerge il grande paradosso: mentre le élite sovranazionali lanciano moniti generici contro presunte discriminazioni, sul campo i nostri agenti combattono mafie transnazionali violente e radicate, spesso connotate etnicamente, come nel caso della mafia nigeriana.
Mafia nigeriana: il volto reale del crimine che l’ECRI non vuole vedere
Non è un segreto per nessuno: la mafia nigeriana è una delle organizzazioni criminali più pericolose d’Europa. Lo affermano sentenze, inchieste e rapporti della Direzione Nazionale Antimafia. Agisce nel traffico di droga, nella tratta di esseri umani, nella prostituzione forzata, sfruttando riti religiosi (juju) e logiche tribali di sottomissione. In molte città italiane, dai quartieri periferici di Torino, a Castel Volturno, da Palermo a Padova, la mafia nigeriana è presente, strutturata, violenta.
Come la si combatte? Con la giustizia, certo. Ma anche – e inevitabilmente – con fermi, controlli, intercettazioni mirate, spesso partendo da profili noti, da dinamiche etniche precise. È razzismo? No. È intelligenza investigativa. È selettività operativa basata su dati e contesto. Ma secondo l’ECRI, rischia di essere letta come “profilazione razziale”.
Un corto circuito che paralizza: di fronte a una mafia vera, si difende un pregiudizio ideologico.
Non solo Nigeria: clan cinesi, gang albanesi, trafficanti maghrebini
La mafia nigeriana non è l’unico caso. In Italia operano anche mafie cinesi specializzate nella contraffazione e nel racket nei distretti tessili, gang albanesi radicate nel narcotraffico, e gruppi maghrebini coinvolti in furti, rapine e spaccio di stupefacenti. Tutti fenomeni documentati, analizzati da procure e forze dell’ordine.
In ciascuno di questi casi, l’identità etnica o nazionale è parte integrante della struttura criminale. Non per scelta delle autorità, ma per autoconnotazione dei gruppi stessi. Eppure, per l’ECRI ogni azione mirata rischia di essere interpretata come “discriminazione”, non come doverosa difesa della legalità.
In questo clima, lo Stato rischia di essere delegittimato proprio mentre cerca di proteggere i più deboli. Chi finisce nella rete di queste mafie sono spesso donne, minori, migranti poveri. Difendere queste vittime significa anche colpire i carnefici con decisione.
Taharrush gamea: la violenza collettiva che non si può nominare
Non è un caso isolato. La notte di Capodanno a Milano, nel pieno della folla festante, gruppi di uomini di origine nordafricana hanno accerchiato, molestato e in alcuni casi violentato ragazze italiane, in un rituale inquietante e purtroppo noto a chi studia le dinamiche criminali importate dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Si chiama taharrush gamea, ed è una pratica di violenza sessuale collettiva che ha avuto tristemente eco mondiale dopo i fatti di Colonia nel 2015. Ora è arrivata anche in Italia.
Le immagini delle ragazze assalite in piazza del Duomo hanno fatto il giro del Paese, ma nessuna raccomandazione è arrivata da parte dell’ECRI. Nessuna riflessione pubblica sul fallimento dell’integrazione, sull’importazione di mentalità tribali, sull’ideologia misogina e violenta che accompagna certi flussi. Al contrario: se un agente ferma un sospetto, si grida al razzismo. Ma se un branco molesta dieci ragazze in pieno centro, si parla di “devianza giovanile” o “episodi sporadici”.
L’asimmetria è evidente. E pericolosa. Perché la paura di essere accusati di razzismo sta paralizzando lo Stato nella sua funzione primaria: proteggere i più deboli.
Tra Bruxelles e la strada: due mondi che non si parlano
Mentre l’ECRI lancia proclami dai palazzi europei, le forze dell’ordine italiane operano in quartieri difficili, con organici ridotti, affrontando rischi quotidiani. Parlare a cuor leggero di “profilazione razziale” significa ignorare il contesto urbano reale, e contribuire alla costruzione di una narrativa tossica che trasforma il tutore dell’ordine in sospetto per definizione.
Il risultato? L’indebolimento della fiducia nello Stato, la disarticolazione dei suoi strumenti legittimi di azione, l’impunità strisciante per i clan.
Chi difende lo Stato, va difeso
L’Italia non teme il confronto, ma non può accettare che la sicurezza venga demonizzata da chi si rifiuta di vedere il crimine per quello che è. L’antirazzismo vero non si fa disarmando le forze dell’ordine, ma tutelando le vittime e contrastando senza ambiguità chi delinque, qualunque sia il colore della pelle.
Chi protegge il popolo non deve essere lasciato solo, né accusato sulla base di preconcetti. Perché non esiste giustizia senza sicurezza, e non esiste sicurezza senza Stato.