La premier Giorgia Meloni è intervenuta al Festival dell’Economia di Trento e ha rilasciato una lunga intervista alla giornalista di Sky Maria Latella. Si è parlato di più argomenti, ma ci vogliamo concentrare ora sui passaggi dedicati alla riforma del premierato, sostenuta dal Governo e attualmente sotto esame in Parlamento. Il Presidente del Consiglio ha sottolineato come sia necessaria una riforma del genere e ha ribadito di puntare molto sulla sua realizzazione, a costo anche di far correre dei rischi alla propria leadership.
Del resto, la premier, sono parole sue, non si trova a Palazzo Chigi per scaldare la sedia e per sopravvivere, non ne sarebbe neppure capace. Sul premierato la Meloni è definitiva: o la va o la spacca! Questo, non corrisponde ad una specie di fatalismo menefreghista, della serie: se ce la facciamo, bene, altrimenti, pazienza, dormiremo ugualmente sonni tranquilli. Ma si tratta di un modo per far comprendere anzitutto che questa maggioranza non sta imponendo nulla con la forza, magari attraverso qualche manipolazione anticostituzionale, per garantirsi, quasi in maniera golpistica, un’architettura istituzionale di comodo.
Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, che arrivano da una lunga tradizione di destra sempre in lotta per la democrazia diretta, (potere esecutivo, premier o Presidente della Repubblica in un quadro presidenzialista, eletto dai cittadini), sono intimamente convinti di essere nel giusto, portando avanti la riforma del premierato, e sono così certi della bontà della loro proposta da affidarne il giudizio al Parlamento e, se sarà necessario, anche agli italiani tramite referendum. Percorrendo il cammino completo senza esitazioni, si può incappare in qualche inciampo e a tanti commentatori è venuto in mente il precedente di Matteo Renzi, costretto a dimettersi nel 2016 da Presidente del Consiglio a causa della bocciatura referendaria delle riforme delineate dal suo governo. Chi crede in ciò che fa e vuole portarlo a compimento, non amando, fra l’altro, tirare a campare in politica, non teme il giudizio popolare e confida di saper persuadere in merito alla utilità di quanto propugna e alla propria buonafede.
Se qualcuno ha fallito in passato non significa che occorra avere paura in eterno del ricorso all’istituto referendario. E’ doveroso menzionare che Renzi all’epoca fosse giunto in uno stadio avanzato di impopolarità generale, infatti, quel no maggioritario al referendum fu una negazione rivolta, non tanto verso il contenuto delle riforme oggetto della consultazione, ma nei confronti della persona dell’allora Presidente del Consiglio. Giorgia Meloni, almeno al momento, non ha problemi di consenso.
In ogni caso, per ragioni molto pratiche e non fideistiche, dobbiamo sperare, stando alla esclamazione meloniana, che con il premierato “la va” o “la vada”. Coloro i quali preferiscono le scorciatoie per non dovere mai rendere conto agli elettori e riuscire però in vari modi a governare, PD e sinistre sono esperti in questo, e vorrebbero sempre maggioranze allargate e innaturali, che garantiscono uno sgabello a tutti senza obbligare nessuno ad assumersi delle responsabilità di fronte alla Nazione, ignorano artatamente quanto sia importante rivedere un sistema parlamentare che avrebbe dovuto essere revisionato già una trentina di anni fa almeno. Non è mai troppo tardi, ma, a ben vedere, saremmo già fuori tempo massimo. Ma è sufficiente avere un minimo di raziocinio e non essere influenzati da interessi strumentali, come capita a Elly Schlein e Giuseppe Conte, per rendersi conto subito di come l’Italia repubblicana abbia avuto sempre problemi di stabilità politica, con la gran parte dei governi durati in media un biennio, se non anche meno, quando la legislatura prevede invece cinque anni.
Gli esecutivi durati di più, quelli di Silvio Berlusconi e di Bettino Craxi, hanno dovuto la loro longevità al carisma e alle capacità di leadership del premier in carica, ma non ci sono sempre all’orizzonte un Berlusconi, un Craxi o una Meloni. Pertanto, serve un nuovo meccanismo che permetta di rispettare anzitutto il voto degli italiani, sbarrando la strada a ribaltoni e cambi di maggioranza nel corso della legislatura, capitati fin troppo di frequente, e di consentire al premier, eletto dai cittadini, di rimanere al governo della Nazione per un mandato intero e di darsi così una strategia di lungo respiro, con riverbero positivo verso l’economia interna, gli investimenti anche stranieri e la credibilità dell’Italia nel mondo. Un Presidente del Consiglio che è sicuro, come si suol dire, di mangiare colombe e panettoni per almeno cinque anni, e non rischia di scomparire dalla scena dopo qualche mese a causa di eventuale fuoco amico, può presentarsi a testa alta nelle discussioni con i partner internazionali ed europei. La riforma del premierato del Governo Meloni contempla tutto ciò.