Il Giubileo dei ritardi. Mancano 54 giorni all’apertura della Porta Santa, prevista il 24 dicembre, che ne segnerà l’inizio. Ma per l’amministrazione comunale di Roma è tutto ancora in alto mare
Il timore è presto spiegato. Gli algoritmi usati per le previsioni calcolano una trentina di milioni di visitatori in una città tra le più caotiche d’Europa, perché deficitaria sul piano dei trasporti. Ma nessuno in realtà sa quanti pellegrini arriveranno davvero. E soprattutto nessuno sa quando arriveranno: se tutti assieme (per esempio: nel giorno del Venerdì Santo sono previsti dalle sole confraternite spagnole centocinquantamila partecipanti per le tradizionali processioni); o se invece avremo un benedetto scaglionamento dell’affluenza, così da evitare un vero e proprio infarto della Città Santa.
D’altra parte, è storia antica: Roma ha davvero già visto tutto. In occasione del primo Giubileo cristiano, indetto da Bonifacio VIII nel 1300, le fonti parlano di duecentomila visitatori al giorno in una città che al tempo contava appena 35.000 residenti. Non è escluso che tra quei pellegrini ci fosse anche Dante, visto che nella Divina Commedia, canto XVIII dell’Inferno, racconta che fu necessario istitu- ire un doppio senso di marcia dei pedoni sul ponte di Castel Sant’Angelo, «che da l’un lato tutti hanno la fronte/ verso ’l castello e vanno a San Pietro/ da l’altra sponda vanno verso ’l monte».
Soluzione ingegnosa, che non sarebbe male imitare ai giorni nostri, visto che a Roma già nella quotidianità in certe aree del centro si verificano veri e propri ingorghi di pedoni provocati dalle numerose carovane di turisti che, seguendo mansuete ma determinate la bandierina alzata dalla guida, s’intrecciano con la folla interrompendone il flusso.
Però poi, subito dopo il timore, viene la «speranza». E sì, perché è la parola-chiave di questo Giubileo, scelto da Francesco. Ed è una gran bella parola, ormai troppo dimenticata. La «speranza nelle cose promesse» è ciò che rese popolare il Cristianesimo in un’epoca in cui gli esseri umani non potevano sperare in nulla. Al giorno d’oggi, invece, non crediamo più molto alle promesse; e ne facciamo d’altra parte noi stessi molte che non manteniamo. Decliniamo la speranza più spesso come un esorcismo dei guai in agguato: Io speriamo che me la cavo, era il titolo di un libro di successo. Ma non sembriamo più avere la speranza che una vita buona e giusta possa avere una ricompensa.
E ciò che vale per le persone vale anche per l’Italia. Se ricominciassimo a credere che le cose possono andar meglio, e se dunque lo volessimo insieme, forse il nostro Paese ritroverebbe lo spirito delle sue epoche d’oro. «Spes contra spem», sperare contro ogni speranza; come ci esortava a fare San Paolo nella sua Lettera rivolta, manco a farla apposta, ai Romani.