Sanremo, ci mancava la polemica sul patriarcato…

A dirla tutta (con una bella fetta di ironia), un po’ ci è mancata la polemica in questo Sanremo, esautorato della sua componente woke, Lgbt e marcatamente progressista che purtroppo ha connotato quello che in realtà è il festival della canzone italiana, il palcoscenico su cui dovrebbero sfilare le grandi eccellenze dello spettacolo italiano, i grandi valori dell’italianità. E vi risparmieremo il pippone su abilità canore e autotune che, da inesperti di musica, non siamo in grado di proporvi.

La carenza di polemiche (l’unica è stata quella sulla accentuata normalità del festival) ha portato qualcuno a inventarne di nuove. E ovviamente tra le prime a reagire a tutta questa normalità sono state le femministe, quelle incallite, che tacciono quando una donna viene costretta a indossare un velo ma parlano (anzi, gridano) quando tra i finalisti di Sanremo arrivano soltanto uomini. Fedez, Simone Cristicchi, Brunori Sas, Lucio Corsi e il vincitore, Olly. Tutti accomunati dal sesso maschile, secondo le femministe quell’arma che ha permesso loro di conquistare i primi cinque posti nella classifica finale. È colpa del “festival della restaurazione” secondo alcune di loro. Un festival volto al “sovranismo” (parola di Roberto Saviano) e a quanto pare anche al patriarcato.

A dire il vero, quelli che hanno occhio critico avrebbero potuto notare che i cinque finalisti erano tutti maschi. Non per urlare al maschilismo, ma per anticipare una mossa (quella delle femministe) che, a pensarci bene, era scontata. E allora potremmo anticipare tutte le altre battaglie che la sinistra si inventerà per infangare il Sanremo più seguito dal 1987 (quando vinse – per intenderci – il trio composto da Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e Umberto Tozzi con Si può dare di più). Potrebbero infatti inventarsi che Elodie si è classificata fuori dai primi dieci non, magari, per demeriti della sua canzone, ma perché ha osato dire che non voterebbe mai per Giorgia Meloni. Come se le sue idee politiche fossero una novità. Potrebbero dire che la canzone di Giorgia, che meritava più di un sesto posto, non ha trionfato perché la cantante si è rifiutata di “mandare un bacio” alla sua omonima premier. Lo stesso potrebbe dirsi per Rose Villain.

Vogliamo le quote rosa a Sanremo (scherziamo)

Dunque, ricapitoliamo: se Amadeus teneva milioni di spettatori incollati alla tv, era per le profonde tematiche che trattava e per gli eccezionali ospiti che riusciva a far salire sul palco dell’Ariston (del calibro di Chiara Ferragni). Se invece Carlo Conti migliora i suoi numeri, c’è da lamentarsi dello zampino del governo e della sua deriva autoritaria. Tanto forte da imporre, con una premier donna alla guida della Nazione, che i finalisti fossero tutti maschi. Per le femministe, allora, non c’entra il merito delle loro canzoni: per par condicio, i votanti (che erano giornalisti, radio e pubblico in quote uguali) avrebbero dovuto destinare qualche posto alle donne, malgrado pensassero che le loro canzoni fossero inferiori. Dall’anno prossimo, allora, vogliamo le quote rosa anche a Sanremo. Anzi, meglio: dividiamo a metà i partecipanti tra maschi e femmine. E, giacché ci troviamo, una percentuale di questi deve appartenere alla comunità Lgbt. Così, invece di far valere la bellezza delle canzoni, dovremo far salire sul palco cantanti meno meritevoli ed escludere altri più capaci ma col difetto di non rispettare i requisiti woke. È questo il magico mondo della sinistra woke, che per fortuna si sta lentamente allontanando da qualsiasi sistema di potere.

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