Sic transit infamia mundi. A chi fa paura Giovanni Gentile? Il 29 maggio saranno centocinquant’anni dalla nascita del più grande filosofo italiano contemporaneo. Ma c’è chi tenta di cancellare il suo ricordo imponendo preconcetti ideologici. La proposta di intitolare un luogo pubblico di Firenze a Giovanni Gentile, avanzata da un consigliere comunale di FdI e “su cui è intervenuto anche il ministro Alessandro Giuli”, trova la solita e confusionaria caciara di Anpi e sinistre varie: a costoro, infatti, interessa esclusivamente la sua adesione alla Repubblica sociale.
Il “gioco” è sempre lo stesso. Identico nelle modalità operative: dopo aver ucciso l’uomo in nome dell’idea, si uccidono le idee di ricordo dell’uomo. Su Giovanni Gentile i “postpartigiani” di oggi hanno la mira più precisa dei veri partigiani di allora, e tirano dritto al bersaglio. Al solito tutto quello che è fuori dalla prospettiva partitica dell’associazione partigiana (tale non per gli iscritti ormai attorno al 3% ma per il modo di pensare manicheo) la fa insorgere, condannare, stigmatizzare, gridare al fascismo, col consueto repertorio di frasi fatte e di allarmi epocali inutili.
Inutile girarci attorno. L’assassinio di Gentile è una macchia della Resistenza. Lo ammazzarono nel peggiore dei modi possibili: conoscendo la sua disponibilità verso gli studenti, un gruppo di gappisti fiorentini si finsero tali e lo avvicinarono nascondendo le armi sotto i libri. In un testo sulla lotta partigiana quel gesto viene descritto come “giustizia del popolo contro il vecchio corruttore della sua intelligenza e della sua cultura”. Ma Gentile non corrompeva nulla, anzi, quando era ministro fu autore della sola riforma scolastica che non assomigli a una costruzione fatta coi Lego da un bambino ipervivace.
Giovanni Gentile è stato riconosciuto da autorevoli studiosi uno tra i più importanti filosofi europei del Novecento, insieme a Benedetto Croce. La sua è un’elaborazione teorica che offre ancora oggi spunti, dal richiamo al Risorgimento oppure come quando nel saggio postumo ‘Genesi e struttura della società italiana’ individuò il valore della comunità.
‘Scendere per strada’ è un motto che lo stesso Gentile adoperò per esortare gli intellettuali a proporre la cultura tra la gente. Ecco perché va celebrata la figura di un intellettuale che, anziché estraniarsi dalla realtà, scelse di incidere profondamente nella società offrendo le sue immense qualità intellettuali e morali al servizio della Nazione e il cui pensiero risulta ancora attuale.
Il connubio tra filosofia e politica che Gentile riuscì a elaborare merita un approfondimento che “vada al di là degli schieramenti culturali e politici”.
Gentile, che fu tra l’altro il fondatore dell’Enciclopedia Treccani, resta uno dei maggiori pensatori del Novecento accanto a Benedetto Croce, ha lasciato un’impronta indelebile sulla scuola italiana e sull’impianto culturale del Paese, un’influenza che ancora oggi si riflette nel sistema scolastico e nelle istituzioni nazionali.
La citazione della celebre frase di un suo discorso del 1925 («Quando tutti gli italiani saranno scesi in strada e penseranno e rifletteranno senza sentire più la tentazione di tornare alla finestra, l’italiano comincerà ad essere quel gran popolo che deve essere») rimanda all’idea stessa che Gentile aveva dell’intellettuale: non chi rimane alla finestra a giudicare gli eventi, ma chi scende in strada a sporcarsi la mani con la Storia e la società, facendosi carico di un ruolo attivo nel mondo e di una precisa funzione civile.
Esattamente quello che – sull’insegnamento delle grandi riviste culturali che nei primi due decenni del ‘900 scelsero di uscire dall’accademia e «scendere in strada» – fece il filosofo dell’Idealismo.
Un uomo che oltre a varare la più importante riforma della Scuola del nostro Paese (fu ministro dell’Istruzione fra il 1922 e il 1924), promosse e diresse istituzioni come l’Enciclopedia Italiana, il Centro Studi Manzoniani, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), l’Istituto italiano di Studi germanici (che dovevano contribuire ad allargare gli orizzonti del sapere al di fuori dei confini nazionali per sprovincializzare la cultura italiana) e poi la Scuola Normale Superiore di Pisa dove Gentile passò prima come studente e poi come direttore, e l’Accademia Nazionale dei Lincei”.
Il 15 aprile 1944 due finti studenti con i libri sotto il braccio per nascondere le armi si avvicinarono al finestrino dell’automobile che si era appena fermata. L’autista era andato ad aprire il cancello. Un uomo dalla stazza massiccia abbassò il vetro. Si sentì chiedere: “È il professor Gentile?” Rispose di sì. I due “studenti” all’istante gli scaricarono in corpo colpi di rivoltella. Inforcate le biciclette, si dileguarono con la copertura di complici. Ma loro, si disse, non sparavano mica all’uomo dell’idealismo, bensì all’idea. Su quell’assassinio ha condotto una straordinaria indagine e ricostruzione lo storico fiorentino Paolo Paoletti, recentemente scomparso, col volume «Il delitto Gentile, esecutori e mandanti. Novità, mistificazioni e luoghi comuni» (Le Lettere, 2005), che è andato a illuminare le zone d’ombra di un omicidio politico di cui c’è davvero poco da essere orgogliosi, e già all’epoca duramente criticato dal Comitato di liberazione nazionale toscano a eccezione del Partito comunista. Anzi, Palmiro Togliatti sull’Unità ne rivendicava invece fieramente l’esecuzione. Tutto o quasi noto su Gentile, sul suo ruolo, la sua vita e le sue scelte, mentre i veri misteri sono altrove.
Quell’omicidio fu definito «carognata ingiusta e vigliacca» non da un irriducibile fascista ma da Oriana Fallaci che su certi aspetti della vita vedeva più lontano di tanti altri, come l’attualità conferma.
Due settimane prima, il 30 marzo 1944, Giovanni Gentile aveva ricevuto una cartolina anonima con minacce di morte: in quanto esponente del neofascismo repubblicano era considerato responsabile della fucilazione di cinque giovani renitenti alla leva rastrellati a Vicchio di Mugello, fucilati il 22 marzo nei pressi della Torre di Maratona dello stadio fiorentino ‘Giovanni Berta’.
Il 18 aprile le sue spoglie vennero tumulate nella basilica di Santa Croce “tempio dell’itale glorie” cantata dal Foscolo.