Un fantasma si aggira per il mondo: quello del socialismo capitalista. Ed è incarnato non dalle Unions, i sindacati rifiutati persino dai lavoratori di Amazon, ma dai boss, i Ceo, i manager, quelli che la iconografia del movimento operaio, confondendoli con i “padroni”, disegnava panciuti e satolli, bombetta e sigaro in bocca.
Per la verità questo mostro, il capitalismo socialista, era già stato predetto negli anni Quaranta da James Burhnam e da Joseph Schumpeter (e un po’ prima dall’italiano Bruno Rizzi) poi la guerra fredda aveva allontanato le convergenze tra capitalismo americano e collettivismo. Oggi invece essi tornano a incontrarsi. E il meeting di cento Ceo delle principali multinazionali Usa di qualche giorno ha fatto molto discutere: soprattutto perché quasi tutti si sono schierati per il partito democratico e per le sue politiche che, come scrive Ryan Bourne sul “Telegraph” del 15 aprile, sono “radicali” – e nel linguaggio politico anglosassone radical equivale a “socialista”. Come scrive Daniel Henneinger sul “Wall Street Journal” del 14 aprile molti di questi Ceo parlavano come Alexadra Ocasio Cortez: pur essendo quasi tutti bianchi, hanno denunciato il “razzismo sistemico” (tranne quello praticato nelle loro aziende ovvio), e si sono schierati contro quelle correzioni al sistema di voto sostenute dai Repubblicani per rendere le elezioni più regolari – come in Italia anche in Us dai brogli è favorita sempre la sinistra. Niente di nuovo.
Negli Usa si utilizza il termine crony capitalism, il capitalismo degli amici, vicino a chi sta al potere: in Italia lo conosciamo bene, ma è tipico anche di paesi come la Russia, le “democrazie” del Sud est asiatico e cosi via. Ora questo modello sta prendendo piede anche negli Usa. Benché, come ricordi un editoriale sempre del “Wall Street journal” del 14 aprile, il “big business” non sia mai stato un amico del libero mercato, e lo spostamento a sinistra di quasi tutti i Ceo lo dimostra, come lo dimostra, al di là delle prese di posizioni politiche, Jeff Bezos che, come denuncia sempre il giornale di Wall Street (non “Jacobin”) dello stesso giorno “obbliga i suoi partner ad accettare le sue condizioni” che tanti piccoli imprenditori non possono affrontare. Ecco, i piccoli imprenditori e i commercianti: sembrano essere loro i nemici del big business, del capitalismo socialista, e quindi non è un caso che troviamo manager di grandi aziende sempre schieratissimi a favore del lockdown. Che uccide pericolosi concorrenti: e, come diceva qualcuno, nessuno più dell’imprenditore vorrebbe l’eliminazione della concorrenza (altrui).
Contro questo capitalismo socialista i conservatorii devono battere continuamente sulle virtù dei piccoli, su quella della riduzione delle tasse, non devono farsi affascinare dal ritorno delle politiche espansive, social-keynesiane, presenti nelle Biden economics. Peggio del collettivismo di sinistra c’è solo il collettivismo di “destra” (anche perché il collettivismo è sempre egualitaristico e livellatore, quindi di sinistra). Il nuovo keynesismo è pericoloso quarto il vecchio: come scrive Nicolas Bavarez sul “Figaro” di oggi, lo statalismo e la leva fiscale (leggi: aumento delle tasse) uccide la ripresa mentre, sul versante statunitense, l’insistenza della presidenza Biden sul consumo dimentica, scrive Alexander William Salter sul “Wall Street journal” di oggi, che la crescita si ottiene con l’incremento della produzione e non con quello della domanda. Il produttivismo è il vero unico antidoto a questo capitalismo socialista che favorisce sempre i poteri corporati, gli amici degli amici, i cliente dei partiti di sinistra e i loro schiavi, mantenuti con elargizioni di denaro pubblico (leggi oggi reddito di cittadinanza). Reagan e Thatcher appartengono a un’altra epoca ma se ritornanassero le demenziali politiche degli anni Settanta, sarà il caso di riprenderli.