L’alba dei giovani ungheresi ha fatto capolino, a sessantatrè anni di distanza dalla “genesi” di “Ragazzi di Buda”, sul palco di Atreju, la festa della destra giovanile (e non solo) di Fratelli d’Italia.
E’ bastata una citazione di Orban a risvegliare nella mente e nei cuori di centinaia di militanti ricordi ed emozioni: un brivido trans-generazionale per un pezzo di musica “alternativa” tramandato di generazione in generazione, in decine di versioni diverse, cantato ovunque, persino negli stadi, che della tradizione orale ha fatto motivo di fortuna.
E pensare che non si tratta della rivisitazione di una marcetta militare o della traduzione di un canto magiaro di rivolta: gli autori sono stati Pierfrancesco Pingitore e Dimitri Gribanosky, regista televisivo, autore e fondatore con Castellacci del Bagaglino il primo, musicista e compositore il secondo, che la scrissero nel lontano 1966; a cantarla al Bagaglino un tale Pino Caruso, in quel teatro-cantina che diventerà crocevia di personaggi e artisti non-allineati che reinventeranno il cabaret italiano.
Nell’immaginario dei “fascisti immaginari”, resi celebri dal libro di Luciano Lanna e Filippo Rossi, proprio il primo Bagaglino rappresenterà il laboratorio musicale, e culturale, dal quale l’ambiente della destra romana trarrà linfa vitale per uscire dalle catacombe e parlare un linguaggio diverso, “pop”, anche se quella musicale resterà esperienza di nicchia, riservata a un pubblico selezionato.
Sorprendentemente pop diventerà invece proprio “Ragazzi di Buda”, orecchiabile quanto basta, anti-comunista per genesi ed eretica, scritta dopo dieci anni dalla rivolta ungherese del 1956, quasi come riparazione per l’imbarazzante silenzio dell’intellighentia italiana e del potente Partito Comunista, legato allora a doppio filo a posizioni filo-sovietiche e per lungo tempo insofferente e refrattaria a necessari processi di revisione storica.
Una versione del brano entrerà anche nella raccolta su musicassetta del 1984, prodotta dal gruppo musicale del Fronte della Gioventù di Trieste.
I paradossi della storia, a volte, viaggiano su canali insospettabili: i “fascisti”, rinchiusi dai loro detrattori in una gabbia iconografica antilibertaria, impazziscono per un pezzo che parla di libertà, di lotta per conquistarla, di giovani che sfidano i carri armati, decenni prima di Piazza Tienanmen. A Sinistra, invece, quei “sei giorni e quelle sei notti di gloria” verranno vissute come un incubo, perché nella “loro” totalitaria visione della cultura i “fascisti” non cantano, non parlano di libertà, non sanno cosa sia la rivoluzione; ma, soprattutto, ogni nota rappresentava una schiaffo alla coscienza sporca di chi non fiatò di fronte ai morti e ai sogni spezzati di una generazione che voleva solo affrancarsi dal gioco di una dittatura sanguinaria e spietata.
L’anarchico laboratorio del Bagaglino partorisce una gemma che supera presto i confini nazionali e proprio in Ungheria diverrà simbolo della rivolta popolare; tanto riconosciuta da essere cantata in Italiano, qualche mese fa, da una scolaresca magiara in gita, diventando presto virale sui social. Lo stesso laboratorio, quello del Bagaglino, di cui faceva parte l’attore e cantante Leo Valeriano, che nel 1968 scrisse la ballata Budapest, un atto d’accusa all’Occidente, colpevole di non aver ascoltato il grido di richiesta di aiuto del popolo ungherese.
La platea di Atreju vive come una liberazione, in epoca di censure e idee bannate da un algoritmo, poter cantare quell’inno in diretta televisiva, in mezzo a giornalisti che cominciano a digitare sui telefonini per capire cosa fosse accaduto, perché i traduttori magiari faticassero a riprendere fiato, con la voce rotta dall’emozione, dopo aver assistito a uno spettacolo spontaneo che respirava di europeismo, vero, molto più di qualsiasi freddo trattato.
Stavolta non sono arrivati i Russi con i loro carri armati a interrompere, brutalmente, l’emozione: dopo sessantatrè anni quei giovani ungheresi vengono ricordati dai giornali e dai media mainstream grazie a una canzone scritta in Italia.
Il “miracolo” di Atreju.