Qualche giorno fa Ritanna Armeni sul Foglio firmava un articolo dal titolo assai inquietante: “I figli che non vogliamo”. In buona sostanza, nel pezzo l’autrice sosteneva che il calo demografico italiano non sarebbe dovuto a problemi legati al welfare (mancanza di asili nido e assenza di politiche che favoriscano la maternità, ad esempio) ma sarebbe da ricondurre ad una questione di tipo culturale: le donne, le giovani donne, non fanno figli perché non ne vogliono.
Già questo basterebbe per sollevare una protesta non generalista da parte di chi invece un figlio lo desidera ardentemente ma non può averlo perché – ahinoi – la denatalità attuale è frutto della annosa mancanza di lavoro. Infatti il punto è proprio questo: se non si ha di che vivere, come si fa a campare un bimbo? Forse per la Armeni questa è una domanda superflua ed è meglio buttarla in caciara riportando il tutto ad una questione culturale. Secondo quanto scritto sul Foglio infatti, le donne rinuncerebbero a diventare madri perché questo comporterebbe la perdita di gran parte della loro autonomia. Del resto, si sa che un figlio richiede impegno, dedizione e cure, ma vuoi mettere ad essere totalmente libera e priva della esperienza della maternità? Fantastico. Se continuiamo così, gli italiani si ritroveranno spazzati via dalle nuove generazioni di immigrati che – come ha ricordato di recente Vittorio Feltri su Libero – continuano a figliare manco fossero dei conigli.
Come porre un argine a questa deriva, dando per assodato che il problema è di natura economica e non culturale? Innanzitutto creando nuovi posti di lavoro: sembra una banalità ma se ne parla da anni e nessuno fa nulla per contrastare la disoccupazione. Poi mettendo in campo politiche di conciliazione tra lavoro e maternità, politiche che diano alla donna la possibilità di occuparsi della famiglia senza per questo rinunciare a prestare servizio in uffici, aziende, società di diverso tipo.
E se una matrice culturale della questione vuol essere a tutti i costi trovata, allora la si ricerchi nella politica identitaria a tratti scellerata che la sinistra ha praticato dal ’68 in poi, favorendo così lo stravolgimento della naturale vocazione della donna ad essere moglie e madre.
Detto questo, l’articolo della Armeni andrebbe cambiato, modificando il titolo con “I figli che non possiamo avere” e non che non vogliamo avere. Perché il non volere è una scelta consapevole, il non potere è qualcosa che si subisce passivamente. E un figlio non può essere visto come un accidente o come una sciagura che sconvolge la vita in negativo. Un figlio è una gioia: comunque, sempre.
Conosco molte ragazze e molte donne senza problemi di bilancio che egualmente non vogliono fare figli. Il “patriota” si sbaglia. E’ la mentalità femminile che è cambiata.
Certo che è così. La mia famiglia è stata numerosa e mia madre diceva che i figli non portano carestia. Cioè sono una ricchezza. Anche nella povertà.
Appunto, gentile Cristina. Questa ERA la mentalità; oggi, le ragazze hanno una testa completamente diversa (anche quelle ricche).