Si fa sempre più complicata la vita politica di Theresa May. Specialmente l’ultima settimana è stata per la premier inglese irta di pericoli e di umiliazioni per culminare con l’accesissima diatriba che si è sviluppata nella Camera dei Comuni, e che è terminata con l’ennesima sonora sconfitta per questa donna volitiva che però, a mano a mano che passa il tempo, sembra più preda degli eventi che padrona di se stessa.
Andiamo con ordine. Tutto nasce per via del famigerato art. 50, poche righe per stabilire come uno Stato possa lasciare l’Unione europea. Ed è leggendo l’articolo che capisci immediatamente come il legislatore non si è fatto troppi problemi probabilmente e maldestramente stabilendo che nessuno si sarebbe mai avvalso di quella scappatoia, proprio perché mai nessuno si sarebbe sognato di lasciare la UE. Mal gliene incolse. A lui, ma a questo punto più alla povera Theresa che vede la sua trattativa ormai vicina al voto dell’11 dicembre prossimo, appesa a un filo.
Infatti, per superare il “nodo Irlanda” sempre più scottante, si è ricorsi a un parere legale di alto profilo. La risposta è giunta alla May che lì per lì ha glissato, poi ne ha fatto conoscere solo una sintesi. E’ stato a questo punto che il Parlamento ha cominciato a pretendere di poter avere accesso a tutto il documento, per altro partorito da dall’attorney general Geoffrey Cox che con questa dichiarazione ha creato una battuta d’arresto al governo britannico. Sì, perché al di la del fatto che tutti più o meno sapessero quale sarebbe stata la valutazione, ritrovarsela scritta nero su bianco e in forma ufficiale, fa tutt’altro effetto. Ed ecco perciò la durissima battaglia parlamentare per ottenere la pubblicazione completa del parere. Alla fine, come abbiamo visto, a spuntarla è stato il parlamento dopo che i ministri erano stati accusati di oltraggio con un voto storico per la Camera dei Comuni come quello di martedì scorso. Però, dopo quanto accaduto – le tensioni, le incertezze, le liti anche violente – la Brexit si è in effetti complicata, se possibile, ancora di più.
Così – non accadrà – ma la Gran Bretagna si potrebbe ritrovare avvinta al carrozzone UE “indefinitamente” e, l’Irlanda , ancor peggio, sarebbe tenuta a restare nell’unione doganale e nel mercato unico in base al meccanismo del backstop (preteso dall’Ue a garanzia del confine aperto con Dublino) anche nel momento in cui il resto del Regno Unito ne uscisse.
Abbiamo già detto che l’ultima data utile è l’11 dicembre prossimo, quando si voterà sull’accordo, e si dà già per scontato che il Governo vada sotto, perciò già si lavora per il dopo perché il peggior scenario che potrebbe capitare sarebbe quello di una Gran Bretagna fuori dalla Ue senza un accordo, con tutto il disastro che questo comporterebbe.
E’ in questo panorama poco edificante, che le opposizioni scaldano muscoli e motori. I candidati si stanno già posizionando: dall’ex ministro per la Brexit Dominic Raab all’inaccettabile ma redivivo Boris Johnson all’emergente ministro degli Interni, il “pachistano» Sajid Javid, quest’ultimo perfetto perché l’islamizzazione della Gran Bretagna continui a vele spiegate così come già sta andando ora. Chi vivrà, vedrà.