Titolo V: limiti e ripercussioni su stato sociale e unità nazionale

L’Italia non è uno Stato federale ma uno Stato unitario decentrato attraverso i suoi enti territoriali. Tale decentramento trova attuazione soprattutto attraverso le Regioni, che diversamente dagli enti locali, dotati di una certa autonomia politica e amministrativa, godono inoltre di ampi poteri, di un’autonomia statutaria, organizzativa, legislativa, finanziaria e fiscale. Lo Stato italiano si configura così come uno Stato unitario contraddistinto da autonomie regionali, dove le Regioni hanno funzioni non solo amministrative ma anche legislative. In virtù dell’autonomia conferita dal Titolo V Parte II della Costituzione, interi settori strategici, come quelli di turismo, sanità, istruzione e relative infrastrutture, sono divenuti di competenza delle Regioni, che hanno appunto il compito di gestirli e finanziarli. Ciò ha determinato una frammentazione della governance di tali settori strategici in senso verticale che a sua volta ne ha favorita una in senso orizzontale quando si è lasciato subentrare l’affare privato in quello pubblico. Sul territorio nazionale sono così emersi evidenti dislivelli qualitativi soprattutto in merito alla fornitura di strutture e servizi sia di tipo sanitario che scolastico da parte delle diverse Regioni.

Il territorio italiano è suddiviso in venti Regioni, di cui cinque a statuto speciale. Venti Regioni possono sembrare numerose ma in realtà alcune di queste sono abbastanza grandi ed economicamente trainanti da essere da sole influenti e capaci di determinare evidenti ripercussioni a livello nazionale.

Se il turismo è un settore strategico che, soprattutto in mancanza di un Ministero esclusivamente a esso dedicato, le singole Regioni, anche le più equipaggiate, non riescono a promuovere al meglio, dati i limiti a interfacciarsi con nazioni estere e organizzazioni internazionali; istruzione e sanità sono due settori non solo strategici ma alla base dello stato sociale di una Nazione intenta a realizzare certe “pari opportunità”.

La salute e l’istruzione vanno garantite in egual misura e qualità su tutto il territorio nazionale e a tutti i cittadini italiani.

Esse non vanno distribuite in termini meritocratici ma piuttosto come un diritto a certe “pari opportunità” da garantire anche in uno Stato che fa del libero mercato e della concorrenza i cardini del proprio modello economico. In un’economia di libero mercato,  se istruzione, formazione e informazione non fossero accessibili a tutti o se lo fossero con forti dislivelli qualitativi, non tutti gli individui potrebbero essere competitivi e cooperativi, e quel libero mercato si ridurrebbe a un mercato in regime di oligopolio. Lo Stato è invece chiamato a un ruolo di garante e a realizzare quelle condizioni che favoriscano su libero mercato la polverizzazione della domanda e dell’offerta, condizione a sua volta necessaria affinché sul mercato viga un regime, se non di concorrenza perfetta, almeno di concorrenza “polipolistica”. Lo stesso vale per la salute, poiché in linea di principio, senza accesso all’assistenza sanitaria, o con un accesso ridotto in termini di qualità, nel momento in cui la salute venisse meno e il diritto a essa non fosse garantito, sarebbe difficile cooperare o competere sul mercato.

Il fenomeno Covid ha messo ancor più in risalto le diverse difficoltà registrate dalle singole Regioni in merito a sicurezza ed efficienza sia sanitaria che scolastica.

Oggi ci troviamo di fronte a un’Italia un po’ più divisa e iniqua in ambito di “pari opportunità”. Le Regioni più virtuose offrono modelli scolastici e sistemi sanitari ben più efficienti di quelli di altre Regioni. Quelli di sanità e istruzione sono due settori strategici che dovrebbero rimanere rigorosamente in mano allo Stato centrale e fuori da ogni logica di decentramento in senso federalista.

In termini di dottrina politico economica, il federalismo fiscale, quale branca della scienza delle finanze,  si occupa di come assegnare competenze e strumenti fiscali per farvi fronte ai vari livelli di governo o di amministrazione che verticalmente possono suddividere Stati e Nazioni. Il federalismo fiscale prevede che ci sia proporzionalità diretta tra le imposte esatte dall’ente territoriale e quelle utilizzate dall’ente stesso, che a ogni livello di governo o di amministrazione ci sia corrispondenza tra le spese derivanti dalle competenze assegnate ed le entrate fiscali per farvi fronte. Un fisco federale, quale sistema integrato in senso verticale dei vari livelli di governo o di amministrazione dello Stato, in linea teorica può anche prevedere un’autonomia dell’ente territoriale nel fissare le aliquote di certe imposte, sia dirette che indirette, vale a dire sia su quelle sui redditi che sui consumi, inclusa l’aliquota IVA, che come avviene nei diversi Stati di una stessa Nazione potrebbe verificarsi nelle diverse Regioni di una stessa Nazione che a questo punto vedrebbe pian piano il disintegrarsi del proprio Stato unitario. Sicuramente l’Italia non ha bisogno di tutto ciò, soprattutto all’interno di questa Unione Europea; occorre invece che imposte e relative aliquote siano decise dallo Stato centrale e adottate da tutte le Regioni, alle quali compete invece la tassazione per quei servizi erogati non dallo Stato centrale ma dalle Regioni stesse sul proprio territorio.

Competenza regionale può sicuramente essere attribuita a tutte quelle tasse riguardanti specifici servizi erogati dalle singole Regioni, ma le imposte che servono a finanziare settori strategici, e soprattutto settori i cui servizi sono alla base dello stato sociale, devono essere di competenza dello Stato centrale, il quale ha il compito di trasformarle in infrastrutture e servizi nazionali. Non deve accadere che il cittadino di una Regione debba andarsi a curare in un’altra Regione, a meno che ciò non avvenga per una prestazione tanto specifica e speciale non fruibile nella maggior parte del mondo e invece fruibile in una qualche nostra Regione per motivi legati al suo speciale virtuosismo che la rendono un’eccezionale realtà nel campo dell’innovazione.

Le imposte che i contribuenti pagano allo Stato, e che per la quota stabilita vanno alla Regione chiamata a garantire certi servizi pubblici, non dovrebbero essere devolute per un servizio privato, soprattutto trattandosi di settori strategici e alla base dello stato sociale.  Ne risulterebbe una frammentazione della governance anche in senso orizzontale e la perdita di una quota di “sovranità” da parte dello Stato. L’utilizzo per esempio di un servizio sanitario privato deve essere lasciato alla libertà di scelta del cittadino che, con mezzi propri,  decide di rivolgersi a strutture private che a loro volta per finanziarsi utilizzano fondi privati non derivanti dai contributi del cittadino versati a Stato e Regioni. Semmai può essere pensato uno sgravio fiscale ai cittadini che, fornendo una controprova assicurativa, fatta eccezione per il pronto soccorso, s’impegnano a utilizzare un servizio sanitario privato. Lo stesso vale per l’istruzione.

Un modello fiscale proponibile, attento al decentramento amministrativo regionale

Consiste nel far affluire una percentuale delle imposte di ogni contribuente allo Stato centrale e la percentuale complementare alla propria Regione di appartenenza. In tal modo la stessa meritocrazia verrebbe salvaguardata. Medesima percentuale d’imposta prelevate su redditi più alti determinano getti fiscali maggiori per quelle Regioni composte da cittadini più virtuosi. Ogni singola Regione potrebbe utilizzare questo gettito fiscale per investimenti in infrastrutture e servizi di vario tipo, per esempio, implementando all’interno del proprio territorio intere reti ferroviarie, autostradali, digitali che vadano a incrementare ulteriormente standard di qualità alti già offerti a livello nazionale.

Più che a una spartizione di settori in termini di competenza fra Stato e Regioni, si dovrebbe ambire a un’integrazione di strutture e servizi territoriali da parte delle Regioni a quelli che lo Stato dovrebbe già garantire a livello nazionale. La gestione della salute e dell’istruzione dovrebbe tornare di competenza dello Stato che in termini di strutture e di servizi sia sanitari che scolastici deve garantire la medesima qualità e i medesimi standard su tutto il territorio nazionale. Competenza delle Regioni dovrebbe essere quella di apportare migliorie utili alla specificità di quel territorio e governare in funzione di quella particolare realtà territoriale. Per quest’ultimo scopo il decentramento amministrativo dello Stato e quindi certe autonomie regionali si dimostrano sicuramente utili, necessarie e da tutelare. Il decentramento dello Stato non dovrebbe però riguardare il campo legislativo e quindi le Regioni non dovrebbero intendersi come enti autonomi con funzioni legislative oltre che amministrative. Solo il Parlamento centrale dovrebbe legiferare, mentre i consigli regionali dovrebbero semplicemente approvare o meno le politiche dei governi regionali che nell’osservanza della legislazione centrale dovrebbero operare come organo esecutivo e non legislativo.

Dall’ultimo referendum per il quale siamo stati chiamati al voto, emerge che una riforma destinata solo a ridurre il numero dei parlamentari è deficitaria se non è accompagnata dall’elezione diretta da parte del popolo sia del capo del governo che del capo dello Stato.

In tempi di emergenza, certe differenze interregionali si manifestano ancor più palesemente e ciò può di fatto portare singole Regioni a usufruire fino al limite massimo della loro autonomia decisionale, soprattutto in virtù di una democrazia più diretta vigente all’interno di ognuna di esse rispetto allo Stato centrale. A differenza del nostro primo ministro, ogni singolo governatore di Regione è stato eletto direttamente dal popolo, per cui, in virtù di questa investitura, ogni decisione di un governatore di Regione pesa enormemente anche a livello nazionale. Quanto più il suo operato si traduce in benefici per la propria Regione e per i suoi cittadini maggiori di quelli registrati in altre Regioni, tanto più i suoi cittadini tendono a stringersi intorno a lui. Ne consegue che, nell’eventualità un governo centrale, non eletto direttamente dal popolo, prendesse decisioni che risultassero anche solo indirettamente penalizzanti nei confronti dei virtuosismi di quella Regione, potrebbero nascere dissapori che non gioverebbero all’unità nazionale.

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Fabrizio Bianco
Fabrizio Bianco
Ha frequentato scuole cattoliche fino alla secondaria di I grado e scuola statale per la secondaria di II grado. Ha espletato il servizio militare nell'Arma dei Carabinieri prestando servizio anche presso il Comando Generale Si è laureato in Economia e Commercio presso l'Universita La Sapienza di Roma. Ha lavorato per quella che è stata una delle più grandi società di cambia valute in Italia Conosce bene l'Europa e gli Stati Uniti d'America, Guida turistica di Roma e accompagnatore turistico in Italia e in Europa di gruppi principalmente statunitensi e canadesi; é anche in possesso della qualifica di direttore tecnico di agenzia di viaggi e turismo. Scrive e pubblica articoli su argomenti economici e storici,  e per quest'ultimi anche in inglese.

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