Preda degli effetti allucinogeni di una violentissima crisi d'astinenza da potere, la sinistra agisce non rendendosi conto di essere ormai nuda al cospetto della verità. Oggettivamente non un bello spettacolo, intendiamoci, quello offerto da un'intera classe dirigente ottenebrata dal livore nei confronti delle destre che, capeggiate da Giorgia Meloni, lo scorso 25 settembre hanno osato conquistare il governo della Nazione.
Per volere del popolo, oltretutto.
Che affronto! Cosa ne saprà mai il popolo di come si gestisce il potere e di quali sono le figure più adatte a rappresentarlo? Nulla, altrimenti non sarebbe popolo, ma élite. Questo il cruccio che, affilato come la lama di una katana, attraversa con la costanza della goccia che scava la pietra ogni singolo pensiero di costoro, riducendoli a un esercito di Gollum costretti a sfogare la propria rabbia riversandola nei social, in televisione, sui giornali o in qualche sparuta protesta di piazza.
Mentre loro si agitano, noi comuni mortali li osserviamo basiti. D'altra parte, chiunque si interessi a ciò che accade anche al di fuori dei nostri confini, sa perfettamente che certi isterismi sono un tratto tipico della sinistra i cui rappresentanti, per forma mentis, considerano il potere alla stregua di una proprietà personale. Questo è il punto di non ritorno poiché, nella narrazione dei sinistri, l'avversario diventa il nemico da abbattere e perciò indifferentemente definito male assoluto, pericolo per la democrazia, fascista, razzista, omofobo, islamofobo o populista.
Per farci un'idea di ciò che ci aspetta nei prossimi 4 anni è sufficiente guardare a come reagirono i democratici alla vittoria di Trump. Al netto delle evidenti differenze di persone e contesto, rimane il comune denominatore di una sinistra che si atteggia ad aristocrazia a cui l'occupazione di potere e sottopotere spetti per diritto acquisito e che, in virtù di esso, è in grado di esercitarlo (il potere) quandanche lo perda alle elezioni.
Parliamo di quello che in America è conosciuto come il Deep State, lo Stato profondo che deriva dall'occupazione scientifica dei posti di comando di ogni ordine e grado con funzionari, burocrati e addetti all'informazione omologati ai dettami del pensiero unico radical chic, oggi diluito in quell'ideologia woke che – eufemisticamente – non appartiene al novero delle cose migliori che abbiamo importato dagli States.
Va da sé che l'approccio aristocratico della sinistra sia totalmente antitetico al concetto stesso di meritocrazia, un vero e proprio bipolarismo su cui si è soffermato perfino Henry Kissinger nelle conclusioni di Leadership (Penguin Press, pp. 528), suo ultimo libro in cui osserva come – dalla metà del ‘900 in poi – in Occidente l'adozione del principio di meritocrazia abbia consentito a individui di talento provenienti dalla classe media di conquistare posizioni di potere e ruoli di governo. Così, persone di origini umili o comunque estranee all'establishment hanno potuto sfidare le categorie politiche convenzionali di insider e outsider.
Una fotografia perfetta di ciò che sta avvenendo in Italia, dove l'outsider Giorgia Meloni è stata capace di vincere le elezioni partendo da sfavorita ma capace, conquistandosi ogni singolo centimetro del suo successo, di sovvertire i pronostici spedendo all'opposizione un'aristocrazia di sinistra fino a quel momento abituata a vincere anche perdendo.
Questo spiega perché un'intera generazione di soggetti affezionati al tepore del liquido amniotico di mamma sinistra stia reagendo così male alle scelte di un Governo che, del tutto legittimamente, ha imboccato la strada della discontinuità culturale rispetto al passato, selezionando una nuova classe dirigente sulla base di merito e libertà d'opinione.
Criteri sacrosanti e di buonsenso, che in quanto tali risultano incompatibili con gli ottusi aristocratici della sinistra. Democratici sì, ma fino a un certo punto.