Tra Kratos e Demos, la costruzione delle élite identitarie

Jair Bolsonaro, neopresidente del Brasile a furor di popolo, è solo l’ultimo della “specie”. Prima di lui è arrivato Donald Trump, l’outsider per eccellenza, alla guida degli Stati Uniti. E prima ancora di questo le conferme degli esponenti della “democrazia illiberale”: ossia Viktor Orban in Ungheria e Vladimir Putin nella Federazione Russa. Come non dimenticare, poi, i nuovi volti della ventata euroscettica? Il ticket popolar-sovranista di Kurz e Strache in Austria e quello Lega-stellato in Italia, con Matteo Salvini sugli scudi. Tutto ciò in un contesto multipolare in cui anche due giganti della tecnologia, l’India di Modi e il Giappone di Abe, sono governati da leader espressione di un mandato forte, legato alla prossimità e al ritorno in grande stile della questione nazionale.
Come tanti sintagmi che formano un paradigma, i popoli – a ogni occasione disponibile – non perdono l’occasione di comporre quella che inizia a diventare un’opera dotata di senso compiuto. Non si tratta più, infatti, di reazioni isolate o di schegge impazzite che rientrano facilmente nella dinamica della «fine della storia» teorizzata da Fukuyama. No, qui si tratta di un fenomeno globale che ha tutte le sembianze di un rigetto tutto politico dell’inevitabilità dello Stato mondiale – governato dall’istintualità degli umori finanziari più che da solidi vettori economici -, rispetto al quale la ricetta multiculturale e globalista della sinistra ha rappresentato l’edulcorante, il passpartout.

Ecco perché – dal Brasile al Vecchio continente fino all’Asia – la sortita dei leader e dei partiti a trazione sovranista, quando non spiccatamente identitaria, si pone in antitesi tanto allo smantellamento della vocazione industriale dei propri distretti e delle proprie eccellenze (promuovendo, al contrario, la difesa degli asset strategici dalle privatizzazioni, come Bolsonaro in Brasile con le telecomunicazioni) quanto alle politiche libertarie eliberal in tema di diritti civili e diritti delle minoranze, viste come un attacco livellatore al sostrato elementare che ha alimentato la ricchezza e le specificità dei popoli. Ciò si è tradotto – come nel caso che ha riguardato Trump proprio nelle prime settimane del suo mandato – nell’annullamento di un trattato di libero scambio, come il Ttip con l’Europa (destinato a colpire le classi lavoratrici e il ceto medio produttivo di entrambi i continenti) come nella messa in discussione – anche qui, poche settimane dopo dall’avvio del governo Conte – dell’immigrazione massiva vista come destino “ineluttabile” per i Paesi del Mediterraneo. Stesso discorso per ciò che riguarda lo stop ai finanziamenti negli States alle cliniche abortiste e quello in Italia riguardante le proposte sullo ius soli o la stepchild adoption.

Traguardi importanti, certo, e senza dubbio rivelatori della possibilità di una contronarrazione che metta al centro i diritti dei popoli e delle maggiorenza rispetto ai desiderata di mercati e fondi di investimento e ai ricatti delle minoranze organizzate. Tuttavia si tratta di conquiste ancora insufficienti per comporre un percorso organico di rimodulazione dei rapporti internazionali e di collaborazione “sostenibile” fra gli Stati. Dalla frattura popolo contro establishment, insomma, il percorso dei movimenti sovranisti che mirano al governo delle rispettive nazioni non può non prevedere l’emersione e l’immissione adesso di un’élite opposta e contraria chiamata a declinare efficacemente il “kratos”, il potere, in funzione del “demos”, del popolo. È una responsabilità storica, un’arma di “costruzione” di massa: se c’è un senso per l’esistenza dei partiti oggi, per gli identitari non può che essere proprio questo.

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