E così il MoVimento 5 stelle ha finalmente gettato la maschera. Lo ha sancito “Trouffeau”, la piattaforma maldestramente intitolata al filosofo del contratto sociale – Rousseau, appunto –, utilizzato per nobilitare una ratifica frutto di una trattativa di Palazzo fra le più opache della storia recente. Già, altro che streaming, “casa di vetro” e «trasparenza», come prometteva a sua volta quel camaleonte di nome Giuseppe Conte: il governo giallo-rosso nasce come una spregiudicata giravolta giocata tutta sul terrore del ritorno anticipato alle urne. E sorge grazie a un voto su un sito sviluppato da una società privata il cui risultato – l’80% di “sì” all’alleanza con il «partito di Bibbiano», di Banca Etruria e del Jobs Act – non è tanto un’offesa ai suoi elettori (dopato o no, il risultato rispetta i diktat e gli accordi sottobanco) quanto all’onestà intellettuale di un’intera nazione.
Titolari di questo “scippo” proprio coloro che avrebbero dovuto aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno» e sono finiti, nel giro di nemmeno mezza stagione politica, a far parte dell’arredamento di palazzo Chigi tanto da accogliere – senza alcun senso del pudore – indistintamente la Lega e il Pd pur di non insediarsi e soprattutto di non schiodarsi dal timone del governo. Per fare cosa? Bella domanda.
Ai grillini la storia ricorderà di certo di aver riaperto la porta al partito più odiato e sconfitto dell’ultima stagione: quel Pd anti-popolare che ha precarizzato ulteriormente il mercato del lavoro, depresso il comparto industriale, aperto le porte davanti alla crisi immigratoria e lanciato una delle sfide più perniciose all’impianto naturale della società e della famiglia.
Tutto questo, è vero, scatenato da una crisi politica di Ferragosto aperta da un Matteo Salvini convinto di aver risucchiato abbastanza dal frutto a 5 Stelle. Una pesca sicura, però, causata dalla totale incapacità di Di Maio & co di gestire minimamente la dimensione del governo e i dossier fondamentali: immigrazione, appunto, sviluppo, opere strategiche, crescita sociale, tasse e rapporto con l’Ue.
Il risultato è stato che in questo anno e mezzo tanto i pentastellati sono crollati – dalla più piccola città al voto delle Europee – quanto i partiti del destra-centro, Lega e Fratelli d’Italia, sono cresciuti, individuati dall’opinione pubblica come il ticket di governo al passo con le richieste della maggioranza degli italiani.
L’implosione dell’Ogm giallo-verde avrebbe richiesto, come logica conseguenza per chi ha sproloquiato in questi anni di democrazia diretta, il ritorno alle urne: proprio in ragione del fallimento del “contratto di governo” e di un M5s a corto – sulla carta – di interlocuzioni. E invece no, cogliendo la palla al balzo lanciata da Matteo Renzi, il nemico totale (almeno così sostenevano), Di Maio, Conte e Fico non solo hanno intavolato una trattativa giocata tutta sulla grottesca suddivisione delle poltrone ma hanno chiuso con Zingaretti, Franceschini ed Orlando un vero e proprio programma di governo. Una sintesi che riconosce oltretutto un unico premier come interprete e garante delle due volontà.
Tradotto: sta per nascere una coalizione politica a tutti gli effetti, orientata sui “suggerimenti” della Commissione Ue, “benedetta” dal Vaticano, sostenuta da Bill Gates. E il fantomatico sovranismo grillino? Una maschera di una recita a soggetto funzionale – come ha spiegato con onestà (non capita) Beppe Grillo – ad arginare le forze sovraniste che si riconoscono nel perimetro “reale”, identitario e sviluppista. Adesso la maggioranza “Ursula”, nata nel laboratorio specializzato di Bruxelles dove i 5 Stelle bramano di farsi accettare come stampella dal Nazareno europeo, è finalmente realtà anche in Italia.
Davanti a un cambio di pelle così radicale e divinatorio (sono bastati pochi giorni per trasformare il Pd dal «partito delle banche», all’alleato che ha fatto esclamare a Di Maio la nascita del «governo delle cose giuste») dovrebbe chiudersi per sempre anche il “forno” che la Lega ha tenuto acceso con il MoVimento.
Se il tentativo giallo-verde ha portato a quale innegabile risultato, impedendo oltretutto l’inciucio tra “sinistre” già in quel frangente. E se ha avuto un senso – tattico – il tentativo di Matteo Salvini di far deragliare il treno giallo-rosso, cercando di mettere in difficoltà Luigi Di Maio con l’obiettivo (per lo meno così speravano gli elettori) di tornare al voto, adesso la sintesi “MaZinga” determina una fase totalmente diversa nella quale non è più possibile accreditare ai 5 Stelle il gettone di movimento anti-establishment.
Il rischio, grossolano, è quello di disorientare non solo l’elettorato leghista – che già dà quale segno di smarrimento, anche nei sondaggi – ma di non agganciare subito la grande richiesta di un’opposizione nazionale che pretende dai suoi leader una risposta immediata al blitz, figlio legittimo di “Trouffeau”. Tutto questo – come gli ha ricordato proprio Giorgia Meloni, invitandolo – a partire dal giorno della fiducia, dove la volontà popolare sarà in massa fuori dal Palazzo. E avrà i tricolori in mano.