Da quando Donald Trump è entrato in politica, una parte dell’establishment – sia a destra che a sinistra – ha cercato disperatamente di incasellarlo nelle vecchie categorie politiche, per poi attaccarlo secondo schemi ormai superati. Eppure, chiunque analizzi il fenomeno Trump con un minimo di onestà intellettuale dovrebbe rendersi conto di una verità innegabile: Trump ha letteralmente cambiato il paradigma della politica americana e mondiale.
Oggi, infatti, il vero scontro non è più tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti. Queste etichette appartengono a un’epoca passata, a una politica ormai superata dagli eventi. Il nuovo paradigma è chiaro ed è quello tra patrioti e globalisti: da un lato, chi difende il popolo, la propria nazione, la libertà di pensiero, il proprio tessuto economico e sociale; dall’altro, chi persegue interessi sovranazionali, quelli delle élite finanziarie, delle multinazionali e delle istituzioni non elette, promuovendo follie come il Green Deal, l’ideologia woke e la censura (quando non l’eliminazione, vedi cosa accade in Romania, NdA) di chiunque non si allinei.
Donald Trump ha incarnato e guidato questa nuova battaglia, spezzando le vecchie liturgie della politica e inaugurando un modello di leadership diretto, pragmatico e anti-burocratico. Non è un politico nel senso tradizionale del termine, e questo è esattamente il punto: non può essere analizzato con le stesse lenti con cui leggiamo i leader del passato.
Chi oggi attacca Trump sostenendo che abbia snaturato il Partito Repubblicano ignora o finge di ignorare il tradimento del conservatorismo operato dai cosiddetti RINO (acronimo di Republicans In Name Only, NdA), ovvero l’establishment repubblicano da George W. Bush in poi.
Dopo Reagan, il Partito Repubblicano ha progressivamente perso la propria identità, cedendo sempre più alle logiche globaliste e all’industria bellica. Bush e i suoi successori hanno abbandonato il conservatorismo economico e sociale in favore di una politica che ha distrutto il ceto medio americano, favorendo le delocalizzazioni, le guerre infinite e l’espansione senza freni dello Stato federale.
Non è Trump ad aver tradito il Partito Repubblicano. Sono stati i Bush, i McCain e i Romney a tradire il conservatorismo reganiano, trasformandolo in una macchina al servizio dell’apparato di Washington.
George W. Bush ha distrutto il principio della prudenza in politica estera con la guerra in Iraq, basata su una menzogna colossale: lo scandalo Nigergate. Fu il vicepresidente Dick Cheney a orchestrare la diffusione di un dossier fasullo attraverso il New York Times, secondo cui Saddam Hussein stava sviluppando la bomba atomica. Il piano era chiaro: usare i media per diffondere una notizia falsa e poi citare quegli stessi articoli come prova della necessità di un intervento militare. Il risultato? Un disastro geopolitico senza precedenti, centinaia di migliaia di morti, il rafforzamento dell’Iran e la nascita dell’ISIS.
L’establishment repubblicano ha permesso la delocalizzazione massiccia dell’industria americana, favorendo la Cina e le multinazionali a discapito dei lavoratori americani. Per anni, i RINO hanno parlato di “libero mercato”, mentre gli operai delle fabbriche del Midwest perdevano il lavoro e l’America diventava sempre più dipendente dalla produzione estera.
Inoltre, i RINO non hanno mai contrastato con forza la deriva progressista, lasciando che l’ideologia woke si diffondesse indisturbata nelle scuole, nei media e nelle istituzioni. Hanno lasciato che la sinistra riscrivesse la storia, che le statue dei padri fondatori venissero abbattute e che la libertà di parola venisse soffocata in nome del politicamente corretto. Questo non è conservatorismo. È un tradimento.
Molti analisti continuano a dipingere Trump come un’anomalia nella storia del Partito Repubblicano, ma la realtà è l’opposto: Trump ha riportato il GOP alle sue radici, riprendendo l’eredità di Ronald Reagan. Chi ha seguito da vicino la campagna elettorale di Trump sa bene quanto lui stesso rivendichi la sua sintonia con Reagan. Il richiamo più evidente è nel suo slogan Make America Great Again, lo stesso usato da The Gipper nel 1980.
Ma la somiglianza va oltre le parole. Reagan e Trump hanno entrambi sfidato l’establishment repubblicano, trasformando il partito in un movimento popolare che parlava direttamente ai cittadini, senza mediazioni. Entrambi hanno messo al primo posto l’economia americana, con politiche di riduzione fiscale e di rilancio dell’industria nazionale. Reagan lo fece con la rivoluzione fiscale degli anni ’80, Trump con il Tax Cuts and Jobs Act del 2017.
Entrambi hanno avuto un approccio pragmatico alla politica estera, riaffermando la forza dell’America senza gettarla in guerre inutili. Reagan vinse la Guerra Fredda senza sparare un colpo; Trump ha normalizzato i rapporti tra Israele e i Paesi arabi con gli Accordi di Abramo e ha smantellato l’ISIS senza avviare nuove invasioni militari.
Nel celebre discorso del 4 luglio 2020 ai piedi del Monte Rushmore, Trump ha chiarito la sua posizione sulla storia americana: «Insegneremo ai nostri figli la verità gloriosa che questa nazione è la più eccezionale nella storia del mondo, e che i nostri fondatori, George Washington, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln, non sono stati uomini da cancellare, ma giganti da celebrare.»
Queste parole non sono solo un rifiuto della cancel culture, ma una dichiarazione di intenti: Trump non sta distruggendo il conservatorismo, lo sta restaurando.
In un certo senso, il percorso dei Repubblicani americani è stato ricalcato anche in Italia e nel resto d’Europa. L’avanzata del globalismo ha trasformato non solo il Partito Repubblicano, ma anche molti movimenti conservatori europei in strumenti funzionali alle élite transnazionali, allontanandoli sempre più dalla difesa dell’interesse nazionale. Questo processo ha portato, nel tempo, al progressivo accantonamento della sovranità popolare, della tutela del tessuto produttivo nazionale e dell’identità culturale dei singoli Paesi.
Anche riguardo al globalismo, Giorgia Meloni ha sempre messo in guardia dai pericoli derivanti dall’erosione dell’interesse nazionale e dal declino dei valori occidentali. Sin da giovanissima, il suo impegno politico è stato guidato dalla consapevolezza che l’indebolimento della sovranità degli Stati e l’omologazione culturale promossa dalle istituzioni sovranazionali avrebbero avuto conseguenze devastanti per il futuro dell’Italia e dell’Europa.
Oggi, il confronto tra patrioti e globalisti non è più un fenomeno circoscritto agli Stati Uniti, ma rappresenta la nuova grande battaglia politica anche nel Vecchio Continente. Proprio come Trump ha salvato il conservatorismo americano dalla deriva globalista, in Italia Giorgia Meloni si è imposta come il punto di riferimento per chi vuole difendere l’identità nazionale e i principi fondanti della civiltà occidentale. Il suo percorso dimostra che il risveglio dei popoli è inarrestabile e che il tempo delle élite globaliste, che hanno cercato di cancellare le radici culturali e politiche delle nazioni, è arrivato al capolinea.