Trump sfida Soros: scontro finale per l’Occidente

Il post di Donald Trump su Truth di qualche giorno fa, in cui punta il dito contro George Soros e suo figlio Alex accusandoli di finanziare proteste violente e invocandone l’incriminazione con la legge RICO, non è una provocazione da social. È un atto politico dirompente che segna un passaggio cruciale: per la prima volta un presidente americano chiama le cose con il loro nome, denunciando apertamente una macchina di potere che opera da anni nell’ombra.

Soros non è un bersaglio retorico: è il pericolo reale per la libertà e la sovranità dell’Occidente, molto più delle fake news del Russiagate inventate per screditare Trump.

I fatti parlano chiaro. Attraverso la sua Open Society Foundations, Soros ha speso miliardi per sostenere ONG e partiti che predicano frontiere spalancate e immigrazione incontrollata. In Europa ha finanziato gruppi che hanno agevolato sbarchi e trasferimenti, provocando squilibri sociali e conflitti culturali.

In Italia, le sue reti hanno sostenuto campagne per abolire i decreti sicurezza, promuovendo regolarizzazioni di massa che hanno minato l’ordine pubblico. Negli Stati Uniti, i soldi di Soros hanno sostenuto procuratori progressisti come Alvin Bragg – simbolo di una giustizia a orologeria – e movimenti come Black Lives Matter, spesso legati a disordini e violenze.

Il suo potere va ben oltre la filantropia. Attraverso Arabella Advisors, Soros ha messo in piedi un sofisticato sistema di dark money, capace di convogliare fondi da giganti come Bill Gates e persino da agenzie pubbliche come l’USAID.

Ex burocrati hanno fatto la spola tra governo e ONG, usando denaro dei contribuenti per alimentare proteste climatiche, campagne elettorali e iniziative per i confini aperti. Una vera e propria rete parallela di potere, invisibile ai cittadini ma potentissima nelle stanze del potere.

Ora Trump ha sbattuto la porta in faccia a questo sistema chiudendo i rubinetti dell’USAID. Gates ha abbandonato Arabella per paura delle indagini federali, lasciando i democratici senza il loro principale bancomat occulto. Un colpo durissimo, perché senza quei miliardi la loro macchina elettorale non può più manipolare campagne e opinione pubblica come in passato.

Non è un caso che leader come Viktor Orbán abbiano cacciato Soros dall’Ungheria definendolo un corruttore sistemico. Né che Giorgia Meloni, nell’ultima conferenza stampa di fine anno, lo abbia denunciato come una minaccia alla sovranità dei popoli, in perfetta sintonia con Trump.

Anche le indagini americane parlano chiaro: gruppi legati ad Arabella hanno orchestrato proteste anti-ICE e ricevuto milioni di dollari in fondi climatici dall’EPA. Altro che beneficenza: qui siamo davanti a un piano politico, coordinato e destabilizzante.

Per capire la portata del fenomeno basta guardare alla storia. Negli anni della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica finanziava partiti comunisti in Occidente per indebolire le nostre democrazie. Oggi Soros replica quel modello con altri strumenti, sfruttando la retorica dei diritti e le ONG come cavalli di Troia.

Gli elenchi dell’USAID che documentano i flussi di denaro verso queste organizzazioni sono, a tutti gli effetti, il “Dossier Mitrokhin” del nostro tempo. E il paradosso è che gli stessi media che hanno fabbricato la colossale fake news del Russiagate difendono Soros, mentre alimentano guerra e globalismo spingendoci tra le braccia di Pechino.

Qui entra in gioco la RICO. La legge varata nel 1970 per smantellare le famiglie mafiose, capace di colpire non i singoli reati ma l’intera struttura criminale. Trump chiede di applicarla a Soros, dimostrando che il suo network risponde a una logica da racketeering: coordinamento, fondi occulti, corruzione politica. Se la RICO ha mandato in carcere a vita boss come i Gambino, può oggi essere l’arma per smantellare la macchina Soros.

Trump e Meloni hanno ragione: Soros e la sua rete sono un pericolo reale. E questa volta la denuncia non resterà isolata: decine di leader occidentali invocano azioni immediate e milioni di cittadini chiedono di difendere la sovranità.

La posta in gioco è l’Occidente stesso: fermare Soros significa proteggere identità, sicurezza e democrazia, impedendo che un’élite senza volto trasformi le nostre società in un esperimento globale senza radici né futuro.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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