Dopo sei anni il presidente cinese Xi Jinping ha rimesso piede sul suolo americano per un summit con il suo omologo Joe Biden a San Francisco. Il faccia a faccia è stato voluto sia da Pechino che da Washington con l’obiettivo di ridare normalità e stabilità alle relazioni sino-americane, scese al livello più basso negli ultimi anni, in particolare dalla pandemia ad oggi.
Non è mai male quando le grandi potenze provano anzitutto a parlarsi e poi riescono a trovare, per così dire, la quadra sui temi cruciali del pianeta, pur fra differenze fisiologiche e uno spirito di competizione inevitabile, che può essere anche salutare se incanalato in determinati limiti. Ne giovano tutti, incluse quelle aree del globo meno influenti e potenti, e le ambizioni destabilizzatrici di regimi canaglia come quello iraniano o quello nordcoreano di Kim Jong-un si riducono drasticamente perché incontrano una sorta di muro eretto dai grandi, che tutti insieme remano nella stessa direzione, almeno circa le questioni fondamentali.
Purtroppo non è sempre possibile l’intesa fra i giganti della Terra e la guerra in Ucraina lo sta dimostrando da quasi due anni. Sarebbe stato meglio per tutti se Stati Uniti, Unione europea e Federazione russa avessero continuato a comprendersi così come riuscivano a fare una ventina di anni fa, ma Vladimir Putin ha scelto deliberatamente di sfilarsi dal dialogo con l’Occidente attraverso l’aggressione militare in Ucraina e i continui ammiccamenti verso i peggiori del mondo come gli ayatollah iraniani e, appunto, Kim Jong-un.
Come si diceva, anche i rapporti fra Stati Uniti e Cina si sono resi freddi come il ghiaccio, ma il vertice di San Francisco ha cercato di abbattere qualche iceberg che si era frapposto tra gli Usa e la Repubblica popolare cinese e ne’ e’ uscito un disgelo parziale, una tregua momentanea secondo alcuni, che non scioglie tuttavia molti nodi. Biden e Xi Jinping si sono trovati d’accordo su alcuni argomenti come una discussione globale piu’ approfondita in merito alla intelligenza artificiale, il clima e nuovi limiti severi alla produzione e alla esportazione cinese dei precursori chimici del Fentanyl, il famigerato oppioide sintetico a basso costo che sta uccidendo tantissime persone negli Stati Uniti.
Considerata la globalizzazione della economia, piu’ contenuta rispetto ai primi anni Duemila, ma ancora significativa, vi e’ la consapevolezza reciproca, sia americana che cinese, sul fatto che la locomotiva a stelle e strisce, insieme all’Europa, non possa ignorare il Dragone, ancora politicamente comunista, ma convertitosi, a modo suo, al capitalismo, e quest’ultimo, a sua volta, non riesca a fare a meno delle economie occidentali. Si tratta di una sorta di simbiosi che richiede l’individuazione di un modus operandi utile a creare una convivenza in mezzo a potenze assai diverse fra di loro. Non e’ pero’ facile scrivere delle regole comuni per una coesistenza ordinata e fare si’ che tutti le rispettino, e il vertice del cosiddetto disgelo sino-americano lo ha dimostrato nuovamente.
La globalizzazione economica ha apportato vantaggi nel mondo, ma anche squilibri, e si e’ rivelata insidiosa per l’Occidente a causa della presenza di concorrenti sleali, il primo di questi e’ stato proprio il Dragone capitalcomunista. L’America ha iniziato a prendere coscienza di cio’ durante la presidenza di Donald Trump, che ha imposto alla Cina diverse sanzioni economiche. Il tycoon newyorchese non doveva essere poi cosi’ scriteriato come lo dipingevano i suoi feroci critici perche’ parte di quelle misure mirate a proteggere l’economia Usa dalle “furbate” cinesi permane tuttora, ed e’ una di quelle cose che ha rotto l’idillio fra Biden e Xi Jinping a San Francisco. Il leader cinese si e’ lamentato, per esempio, del perdurare delle limitazioni statunitensi all’export hi-tech. La globalizzazione puo’ essere una opportunita’ se non vi sono bari e le condizioni competitive sono uniformi, come ha ricordato il presidente Biden al suo interlocutore. Il futuro di Taiwan e’ un macigno che pesa parecchio sull’idea di una reciproca sopportazione pacifica fra Usa e Cina.
Al summit californiano entrambi i leader si sono mantenuti sulle loro posizioni, gia’ note e non coincidenti. L’isola di Taiwan è per Pechino soltanto una provincia ribelle che presto o tardi, con le buone o con le cattive, dovrà consegnarsi alla Repubblica popolare, mentre gli Stati Uniti, pur rispettando il principio di una sola Cina e non volendo lavorare per una indipendenza dichiarata della Repubblica di Cina, cioè Taiwan, esigono, giustamente, che Taipei, capitale di uno Stato indipendente de facto, debba essere lasciata libera di decidere il proprio presente e il proprio futuro senza interferenze da parte del regime comunista.
Finora, un determinato status-quo, (la Cina continentale lascia in pace l’isola, che, a sua volta e con il parere favorevole degli Usa, non insiste su una indipendenza ufficiale), ha abbastanza funzionato, ma a Xi Jinping sembra non bastare più tutto ciò e, non a caso, le dichiarazioni della dittatura del Pcc, (Partito Comunista cinese), in merito a Taiwan, sono divenute sempre più aggressive e minacciose. Pare sia giunto il momento che la Repubblica popolare si appropri della Repubblica di Cina anche con le armi se necessario. La Cina, dopo aver visto crescere il proprio Pil per tanti anni e nella maniera che conosciamo, incontra ora, per la prima volta, delle difficoltà economiche, e alcuni ritengono che un certo nazionalismo muscolare, esibito soltanto nei tempi più recenti, sia solo una cortina fumogena per tentare di celare alcune grane interne, (per quanto quello cinese sia un regime dittatoriale, anch’esso deve gestire in parte il consenso della popolazione).
Ma è saggio rimanere in allerta e nel caso in cui dovesse capitare l’irreparabile, gli Stati Uniti, che senz’altro dispongono già delle loro Forze Armate dislocate nel Pacifico proprio per proteggere gli alleati dell’America in quell’area, fra i quali spunta Taiwan, non potrebbero fare altro che abbandonare il tradizionale equilibrismo fra Pechino e Taipei, e scegliere di difendere l’isola eventualmente aggredita. Il resto del mondo libero, Europa in primis, non potrebbe che seguire gli Stati Uniti. Una ipotetica invasione di Taiwan imporrebbe delle posizioni nette perché ben pochi Paesi riuscirebbero ad accettare una violazione di tale gravità. L’Occidente ha già dovuto inghiottire il venire meno della speciale autonomia di cui godeva Hong Kong, e sarebbe suicida voltare le spalle a Taiwan.
Pur nella consapevolezza di dover ricercare, per quanto è possibile, un approccio pragmatico con la Cina, essa non può non generare una certa sfiducia presso i governi occidentali. Xi Jinping da un lato dichiara di volere un dialogo sempre più aperto con America ed Europa, ma dall’altro fa ben poco, per non dire nulla, al fine di risolvere i conflitti in corso, Ucraina e Medio Oriente, in un modo che possa essere accettato da tutte le parti in causa, e il principale disegno cinese sembra solo quello di fortificare un fronte anti-occidentale con la Russia, l’Iran e la Corea del Nord. Dopo l’incontro di quattro ore con Xi Jinping, il presidente Biden ha tenuto una conferenza stampa nella quale ha ribadito quanto già affermato mesi fa, e cioè che la figura del suo omologo cinese corrisponde a quella di un dittatore.
Pechino ha reagito con forte indignazione e probabilmente anche qualche commentatore occidentale avrà avuto da ridire sulla presunta irresponsabilità di Joe Biden che con un aggettivo imprudente ha rischiato di vanificare in un attimo tutti gli sforzi fatti per scongelare le relazioni sino-americane.
Biden, dando del dittatore a Xi, ha forse voluto certificare dinanzi al mondo che il disgelo Usa-Cina è al momento solo parziale e poi, diciamocela tutta, non ha fatto altro che tornare su un concetto ovvio, addirittura banale e scontato. La necessità di non ignorare la Cina non deve però farci infilare la testa nella sabbia. Quello della Repubblica popolare cinese è un sistema politico ancora comunista e basato in piena regola su un partito unico, e se non è dittatura questa, beh, allora dovremmo riscrivere tutti i manuali di Storia.