Ucciso per una scarpa pestata. Aveva soli 19 anni, Santo Romano, è stato ucciso a colpi di pistola dopo una lite a San Sebastiano al Vesuvio. Un ragazzo incensurato nato ad Acerra ma residente a Volla, che giocava in Eccellenza nella squadra della sua città come portiere. Un altro colpo ha ferito al gomito un coetaneo di Ponticelli, anche lui calciatore e compagno di squadra di Romano. Entrambi militavano nell’Asd Micri, squadra che ha sede a Pomigliano d’Arco ma gioca a Volla. Ieri era insieme ad alcuni amici in piazza Capasso a San Sebastiano al Vesuvio. La lite sarebbe nata da un pestone involontario su un piede e da una scarpa sporcata. In sostanza, un motivo futile. Da qui è nata la discussione tra due gruppi di ragazzi e poi i colpi di pistola.
Appena sette giorni fa stessa sorte è accaduta ad Emanuele Tufano, un ragazzo di quindici anni ucciso da un colpo d’arma da fuoco alla schiena in una stradina laterale del centralissimo corso Umberto a Napoli.
È peggio del Far West, tra Napoli e il suo hinterland. Ora dovremmo smetterla anche di dipingere Napoli e il suo rinascimento. Strano destino quello di Napoli, città ricca di tesori culturali che nel mezzo del massimo sforzo di progettazione e di rilancio resta sola. E proprio nel momento in cui l’esposizione mediatica e turistica è ai massimi livelli. Parthenope, il film di Paolo Sorrentino ha il record d’incassi in Italia, affascina e fa discutere. La città è campione di arrivi con 140 mila visitatori (ufficiali) attesi soltanto in questo weekend.
In sette giorni, due sparatorie con vittime dei ragazzini, degne delle scene di Gomorra. Napoli e la sua provincia-ora più che mai- hanno bisogno di una scossa. Quello non c’è stata nemmeno lo scorso anno per l’uccisione del povero e innocente musicista Giogiò Russo a piazza Municipio. Non ci sarà, nemmeno ora. Almeno fino a quando, e chissà quando, non cambierà la politica di questa città, che si crogiola con i sold out turistici e l’orribile Pulcinella, a forma fallica, di Gaetano Pesce voluto dal sindaco Manfredi, fin quando non avverrà una rivoluzione innanzitutto culturale, qualcuno che decida di mettere le mani nel fango, nelle radici di questa terra, per andare a modificare la mentalità, l’educazione distorta, la sottocultura che imperversa in mancanza di lavoro, di opportunità, in assenza delle istituzioni.
Fino ad allora, per favore, smettiamola di parlare di Napoli. Che senso ha definirla la città più bella del mondo, che senso ha oggi raffigurare una Napoli antica di splendore e disperazione, di ville sul mare e vicoli malfamati, di uomini abbrutiti dalla miseria, come ci raccontava già Matilde Serao nell’Ottocento? Che senso ha parlare di borghesia malata e poi mostrare ancora, e ancora, il mare, il Vesuvio, la Gaiola, Capri, e tutte le bellezze che ci circondano? Perché descriviamo il bianco e il nero e mai, invece, quello che c’è in mezzo, la sottocultura che imperversa tra la gente cosiddetta “perbene”, che guadagna ed evade le tasse, che ha i soldi ma si fa ugualmente il pezzotto, che va in giro con le targhe polacche e in auto la cintura la infila dietro la schiena? Perché non diciamo che sì, siamo la città della tolleranza, ma tolleriamo tutti, anche i delinquenti, i corrotti e i prepotenti? Senza scomodare il famoso grido di dolore di Eduardo, fuitevenne.