“Questa è sicuramente la lettera più difficile che abbia mai scritto…” Comincia così la lettera che John Elkan ha inviato ai suoi dirigenti per annunciare la fine dell’era Marchionne perché, come ha detto sempre Elkan, “Sergio non rientrerà più in azienda”.
L’uscita di Marchionne dal gruppo del Lingotto, era prevista per la primavera del 2019. Questo improvviso cambio ai vertici ha sorpreso tutti e afflitto molti quando si è appreso che è connessa allo stato di salute del manager, ufficialmente sottoposto due settimane fa a un’operazione alla spalla, ma le cui condizioni si sono improvvisamente aggravate fino a diventare “irreversibili”. Così, si è atteso il week-end per cambiare tutti i vertici del gruppo Fiat-FCA e per dare l’annuncio a Borse chiuse, e si attende per stamattina la risposta del mercato a quelle che sono le nuove scelte.
Il nuovo ceo di FCA (Fiat Chrysler Automobiles), Mike Manley, è nato a Edenbridge, nel Regno Unito, 54 anni fa. E’ l’uomo che ha portato il marchio Jeep ad un incredibile rilancio, con una crescita del 163% rispetto al 2010, arrivando a una vendita di auto molto vicina ai 2 milioni di veicoli. Dal 2011 è membro del Group Executive Council (Gec), organo decisionale di Fca, sottoposto soltanto al consiglio d’amministrazione. Dal 2015 Manley è anche alla guida del brand Ram, strategico per gli Usa perché specializzato nella produzione di Pick-up e minivan. Un curriculum di tutto rispetto, dunque, ma sarà sufficiente per non far rimpiangere “l’uomo dal pullover nero”?
E’ il 2004. Sergio Marchione fa il suo ingresso nel gruppo FIAT prendendo il posto di Giuseppe Morchio, ereditando un bilancio di esercizio che vede ricavi per 47 mld (7 meno che nel 2002), un indebitamento netto di circa 15 miliardi e una perdita di 2 miliardi, con un rosso di 500milioni. Proprio niente di che stare allegri. Anzi. Occorre un idea per dare un svolta a un gruppo che sembra aver imboccato una china pericolosa, e che sia un’idea vincente anche nei tempi brevi. Marchionne ce l’ha. E’ il 2005. Il manager annuncia investimenti e rilancio quando tutti si aspettavano tagli e attendismo. Ci sarà il lancio di 20 nuovi modelli di auto e il restyling su altri 23. Nasce la Grande Punto che viene accolta benissimo dal mercato e diviene l’auto più venduta in Italia nel 2006 e nel 2007. E poi la Nuova 500 che sembra tutti attendessero, almeno a giudicare dalle richieste che ne fanno immediatamente un successo. Intanto la crisi economica sconvolge il mondo, e Marchionne ha un’idea che nessuno si aspetta: inizia la scalata alla Chrysler, con un investimento di 8 miliardi per rilanciare anche lo storico marchio americano. Non è facile lottare contro il protezionismo USA, ma alla fine Marchionne la spunta: viene raggiunto un accordo che prevede l’acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi. Nasce così il sesto gruppo automobilistico del mondo. L’annuncio di tale accordo è stato dato dallo stesso presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Un’altra trattativa importante svolta da Marchionne è stata quella legata all’acquisizione di Opel, azienda automobilistica europea del gruppo General Motors che non andrà a buon fine.
In tutto questo, però, va anche sottolineata la “mano pesante” con cui Marchionne decise di tagliare quelli che immaginava “rami secchi” dell’azienda. Viene così chiuso lo stabilimento di Termini Imerese, in Sicilia, con la perdita secca di 2000 posti di lavoro. Ma non è il solo, altri stabilimenti Fiat vengono chiusi o ridimensionati. Una medicina amara che non si può evitare? Il dibattito sarà aspro e lungo, e non darà mai una risposta univoca.
Tuttavia, osservando oggi il gruppo FCA e i suoi 263mila posti di lavoro in tutto il mondo, una cosa appare certa: Marchionne ha fatto benissimo il suo lavoro. Quanto questo poi sia stato etico se osservato attraverso lenti sociologiche o ideologiche è un altro discorso. Marchionne ha preso un’azienda decotta, tirata avanti per decenni solo grazie agli aiuti statali e l’ha rivoluzionata. In clima di globalismo, l’ha trasformata in “azienda globale”, trasferendo la sede all’estero, cambiandone addirittura il nome, abbattendo pregiudizi e resistenze di ogni tipo, interne ed esterne al gruppo.
Spietato e lungimirante, manager all’americana, tagliatore di teste, ha fatto fuori anche quel Luca di Montezemolo un tempo vincente ma che ormai non vinceva più, perché se guidi un’azienda devi guardare al profitto e all’espansione, non alle questioni di cuore, e nemmeno di appartenenza. Per questo, Marchionne italo-candadese, non si può definire un grande italiano, ma sicuramente un grandissimo manager.