Si è sentito ripetere spesso, a quelli di sinistra, di essere “dalla parte giusta”. Se non “dalla parte giusta della storia”, come a voler indicare che dalla Seconda Guerra Mondiale, la sinistra, italiana, europea e internazionale, non ne abbia sbagliata una. Lo si è detto anche in merito alla crisi in Medioriente: questa volta non i partiti politici (non apertamente almeno) ma sicuramente l’hanno fatto quei miscugli di collettivi, centri sociali, studenti ideologizzati che, nelle piazze, bruciavano i fantocci di Giorgia Meloni e Benjamin Netanyahu e, nelle università, chiedevano lo stop delle collaborazioni di ricerca con lo Stato d’Israele. La “parte giusta”, secondo i manifestanti molto chic e poco radical, era stare con il popolo palestinese (anche se nessuno in Occidente si è dichiarato contro ai civili), la cui difesa passava però al non trovare parole di condanna verso l’organizzazione terroristica di Hamas e, invece, nutrire un profondo odio verso Israele, i suoi vertici e il suo popolo. Odio corroborato da una forte matrice antisemita. E allora, in virtù di ciò, studenti universitari in tutta Italia hanno dato il via, nelle scorse settimane, a campagne di protesta contro i vertici dei rispettivi atenei per bloccare gli accordi tra questi e le università israeliane, in nome di una censura che si può riscontrare, a dirla tutta, più negli stati teocratici del mondo arabo che in Israele o, in generale, in Occidente.
Collettivi in silenzio dopo l’attacco iraniano
A quelle campagne di protesta, fatte di intrusioni in convegni, sit-in e occupazioni di rettorati, alcuni atenei hanno ceduto. Molti studenti hanno infatti trovato l’appoggio dei professori, probabilmente in balia di quel clima pro-censura politica che il mondo della scienza non avrebbe dovuto più conoscere. È il terzo millennio, il periodo delle Costituzioni cosiddette lunghe e rigide, degli organi di garanzia sovranazionali e internazionali, dell’allargamento dei diritti, del progresso tecnologico, ma c’è chi ancora, in Occidente, gioca a imbavagliare il prossimo. Per ragioni politiche. Dopo l’attacco missilistico di sabato sera dell’Iran, però, lo scenario in Medio Oriente è cambiato. E ora come si comporteranno i collettivi? Chiederanno lo stop alle collaborazioni con le università iraniane o del mondo arabo? Macché, tutto tace. Tacciono sia quegli studenti inferociti contro Israele, sia quei professori che li hanno appoggiati. Tacciono perché a guidare le loro proteste è stato l’odio politico, e non un vero sentimento “pacificatorio”. Tra quegli atenei che hanno ascoltato le proteste dei collettivi e hanno sospeso le collaborazioni con Israele, ci sono le università di Torino e di Bari che, allo stato attuale, hanno in attivo molte più collaborazioni con il regime degli Ayatollah che con gli atenei israeliani. E il silenzio degli studenti, ora, dimostra che il vero intento non era quello di rimanere lontani dalle questioni belliche, ma quello di avallare l’odio antisemita che lo scorso 7 ottobre diede piena dimostrazione di sé.
Scienza e atenei liberi da ideologie: la vera strada per la pace
Sia chiaro: a essere incriminato è il “due pesi, due misure” che, come sempre, trova applicazione a sinistra, moderata o estrema che sia. Nessuno qui, infatti, sosterrà mai che dovrà essere imposto uno stop alle collaborazioni con le università di Paesi arabi. Anzi, ben vengano: sotto dittature come l’Iran e l’Afghanistan, lo studio, la ricerca, le collaborazioni universitarie sono spesso l’unico modo per i giovani di avere a che fare con la libertà, sono l’unica possibilità di evadere da quel mondo di chiusure, censure e privazioni. Uno spiraglio di luce nel mezzo del buio pesto della dittatura. Devono quindi continuare le collaborazioni tra gli istituti di diverse parti del mondo, e così è un errore l’aver bloccato quelle con Israele. La libertà è la prima arma contro la guerra e per la pace. Se veramente l’obiettivo è quello della de-escalation.