E’ passata sotto traccia la notizia della donna torinese di 55 anni, depressa per la morte del figlio, che, senza informare il marito, gli amici e la famiglia, si è recata in una clinica svizzera per accedere al suicidio assistito.
E nessuno ne avrebbe saputo nulla se non fosse per l’email pervenuta al coniuge, per informare che la procedura era andata a buon fine e la donna era morta. “Le recapiteremo quanto prima le sue ceneri”, in chiusura di lettera, lasciando il vedovo a recriminare contro lo psichiatra che, a suo dire, anziché aiutarla in un percorso di recupero l’avrebbe sostenuta nel volerla far finita.
La donna era in cura presso uno psichiatra e non aveva alcuna malattia in fase terminale, questo per escludere dal discorso qualsiasi possibile obiezione sul fronte eutanasia.
Perché non siamo di fronte al caso, anche troppo chiacchierato sui media, del malato che decide di andarsene per l’impossibilità di un qualsiasi controllo su di una vita invivibile. Siamo, invece, di fronte ad un caso ben più grave, nel quale un individuo sano, giovane, a causa di un lutto subito e del comprensibilissimo, umano e struggente dolore, si fa uccidere dallo Stato all’interno di una struttura sanitaria.
Questo obbliga a porci delle riflessioni che siano leggermente più complesse della dicotomia tra bianco e nero che tanto sta svilendo qualsiasi dibattito culturale impegnato a favore della banalizzazione dei concetti. Non solo è un obbligo, bensì è giusto affinchè si provi a non banalizzare alcuna delle posizioni.
Da un lato abbiamo chi si batte per il rispetto dell’autonomia individuale e la possibilità di porre fine a sofferenze insopportabili: nessuno ha il diritto di giudicare in merito al dolore, ben me ne guardo. Ma c’è una differenza enorme, parlando di un individuo sano e cosciente, non vittima di malattie incurabili ed in cura per la depressione, tra l’atto deliberato di suicidarsi – in qualsivoglia modo – e l’atto di farsi uccidere in una clinica. Nel primo caso l’individuo, con un suo gesto, avventato o meno, voluto o meno, compie un atto di disposizione della sua esistenza. Nessuno dovrebbe giudicare la volontà dell’uomo né il suo gesto. Nel secondo caso, invece, si delega allo Stato, che nulla altro è che un apparato in questa concezione, il diritto, potere e dovere di terminare una persona umana al suo posto. Diventando, quindi, a tutti gli effetti, un assassino. Poco interessa che vi sia alla base la volontà del singolo, che sarebbe libero di uccidersi da sé. Tale volontà viene trasferita allo Stato, che quindi diviene padrone di togliere una vita.
Non di meno, tra le persone favorevoli all’introduzione di queste misure anche in Italia (al di fuori di 6 Paesi nel mondo, il suicidio assistito è pratica contrastata), vi è chi mosso da argomenti economici: per costoro, il suicidio assistito sarebbe un rimedio all’eccessivo onere finanziario associato alle cure mediche prolungate, tanto per il privato quanto per il Sistema Sanitario Nazionale. A tal proposito, ritengo offensivo anche il solo dilungarmi: nel momento in cui quantifichiamo col denaro la vita umana, diventiamo il genere di società distopica nella quale il valore dell’uomo è parametrato unicamente alla sua produttività economica, in nulla dissociandoci da regimi totalitaristi del passato e del presente all’interno dei quali l’uomo è un misero numero.
Questi, se così si vuol vederla, sono i pro del suicidio assistito, che differisce dall’eutanasia anche se si fa volutamente confusione. Con lo stesso distacco, bisogna valutare i contro: serie preoccupazioni etiche, religiose, morali, legali, mediche e non ultimo il rischio di abusi.
Non mi sognerei mai di definire con termini negativi, come spesso avviene quando il dibattito diventa mediatico e silenzia la coscienza, chi ritiene che la vita umana vada preservata a tutti i costi e che l’aiuto (o nel caso di questa donna, una possibile spinta) al suicidio possa aprire la porta al degrado etico della società. Identica considerazione vale per chi teme un abuso di tale misura nell’ottica che una legalizzazione di tale pratica possa portare a decisioni affrettate o influenzate da fattori esterni mutevoli, come nel caso che abbiamo esaminato.
Per non parlare, poi, delle preoccupazioni sul possibile impatto negativo in termini di fiducia nelle cure mediche e sulla relazione tra paziente e medico. Un medico, oltre che un professionista laureato, è promotore della vita e del benessere: come può essere coinvolto a cuor leggero nel suicidio assistito di un essere umano, che invece avrebbe per principio e per giuramento ippocrateo il dovere di curare?
Va tenuto conto anche, nell’analisi, del pensiero comune sul valore della vita umana e sul rispetto della dignità individuale: il venir meno della sacralità della vita è scontato, a maggior ragione se ciò avviene a causa di decisioni affrettate o influenzate da fattori esterni, quali possono essere induzioni alla scelta del suicidio assistito per circostanze difficili quali possono essere traversie finanziarie o stati depressivi.
La ricerca di un serio dibattito, la doverosità di affrontare un tema così complesso partendo dalla coscienza degli interessi in ballo, è l’unico modo per addivenire ad un ragionamento sul tema che sia più dignitoso degli slogan di piazza esibiti dai fan dei contrapposti schieramenti. Ma è abbastanza inutile, in questo periodo storico, anche solo sperare nella serietà del dibattito, circondati come siamo da enormi camere dell’eco in cui ognuno ha ragione perché silenzia chi ha un parere divergente.
La mia opinione, per quel che vale, è racchiusa nella cabina Suicidiomatic di Futurama, serie di animazione che più di 20 anni fa presagiva la realtà in divenire: individui che, stanchi e delusi dal vivere, colti anche dall’avventatezza, si richiudevano al loro interno, lungo le strade della città, per essere uccisi. Se questa è la società che qualcuno apprezza, la sua parodia l’aveva già dipinta quel genio di Matt Groening.