Questa mattina sembra che gli sforzi fatti dagli alleati atlantici per fermare l’escalation tra Iran ed Israele fossero stati un vano tentativo di restituire alla regione araba un minimo di ordine. Teheran non aveva alcuna intenzione di scusarsi per le sue minacce nei confronti dello stato ebraico e tantomeno si trovava disposta a contrattare sul permesso di vendicarsi dopo le ingerenze del Mossad nel suo territorio, causali della morte di Ismail Haniyeh. L’orgoglio degli Iraniani sembra a tutti gli effetti il problema principale con cui fare i conti: la Repubblica islamica cede difficilmente alle richieste degli altri paesi, specialmente a causa delle sanzioni e dell’isolazionismo forzato a cui è stata sottoposta da molto tempo a questa parte.
Tuttavia, nel pomeriggio è arrivata la notizia riguardante le parole di tre importanti funzionari dell’Iran, i quali hanno stabilito che un cessate il fuoco a Gaza dovuto ai colloqui di Ferragosto potrà evitare l’attacco diretto ad Israele da parte dell’esercito iraniano. Per quanto possa essere determinato un apparato, ci sono condizioni che vanno aldilà dell’interesse personale nel regolamento di conti con terze parti. Se questi incontri non dovessero finalmente realizzare una tregua, allora vorrà dire che lo scontro potrebbe essere quasi del tutto inevitabile. Il vertice di giovedì sta lentamente assumendo le sembianze di un ultimatum: arrivati a questo punto, la preoccupazione per un’eventuale espansione del conflitto rimane più che lecita. Non è poi così difficile comprendere che una serie di rifiuti – da Israele ed Hamas – rischierebbe di compromettere le trattative future.
Un rappresentante iraniano prenderà parte al vertice di metà agosto, comunicando con gli USA durante lo svolgimento delle negoziazioni. Ovviamente il suo ruolo sarà marginale, poiché un intervento diretto non gli sarà concesso, ma in questo modo Teheran avrà l’occasione di comprendere cosa stia succedendo in tempo reale: quest’ultima può essere interpretata come una dimostrazione di fiducia da parte degli Stati occidentali, un’azione che serve a far comprendere quanto l’interesse comune debba essere la quiete nell’intero continente mediorientale. Bisogna comunque ricordare che a capo dell’America c’è ancora Joe Biden e che quindi una possibile disfatta non è da accantonare per il momento.
Yahya Sinwar ha dichiarato che Hamas potrà prendere parte ai colloqui soltanto se i raid israeliani su Gaza dovessero finire di verificarsi. Ognuno vuole le sue garanzie, in questo caso scendere a patti diplomaticamente da parte di Israele sarebbe una dimostrazione per la disponibilità nella ricerca di un accordo. Sicuramente anche la Knesset ed in particolare il Premier Neatnyahu, cercheranno una polizza assicurativa per evitare che il patto si dimostri una fregatura. Piuttosto difficile che i due personaggi principali si fidino l’uno dell’altro in questo preciso frangente.
Tony Blinken è tornato a farsi sentire sullo scenario internazionale, dopo aver interloquito stamattina con il diplomatico turco Hakan Fidan, rammentando quanto sia importante adesso la partecipazione di Hamas ai colloqui. Questo promemoria è piuttosto importante, viste le ostilità tra Erdogan ed Israele oltre al soggiorno dei funzionari di Hamas proprio in Turchia. L’ultimo caso è a dir poco singolare, lecito chiedersi come mai uno stato che fa parte dell’Alleanza atlantica possa ospitare nella propria dimora nazionale i rappresentanti di un nucleo paramilitare islamista. Le scuse sulla posizione geografica dello Stato turco non sarebbe comunque sufficiente a spiegare questa scelta dell’attuale governo.
Nel frattempo le truppe israeliane rimangono concentrate sulle manovre difensive ed offensive, in considerazione degli ultimi eventi che hanno ampliato le ostilità in più parti del continente. Nel frattempo sembra che l’unico movente in grado di scongiurare l’attacco iraniano, sia il risultato concreto scaturito nel dialogo tra Israele ed Hamas.