9 agosto 1945. Mancano pochi minuti alle 8 del mattino quando, sulla città giapponese di Nagasaki, si scatena l’inferno. Un inferno di accecante luce bianca e calore, che brucia e cancella case, alberi e soprattutto persone. Un inferno che assume la forma di un immenso fungo. E’ la seconda bomba atomica lanciata sul Sol Levante da un bombardiere americano: “Fat man” (questo il nome dato all’ordigno) segue infatti di pochi giorni “Little boy” che, il 6 agosto, aveva distrutto Hiroshima.
Molto è stato detto e scritto sulla tragedia nucleare che ha devastato il Giappone. Senza entrare troppo nel dettaglio, vale la pena fare alcune brevi considerazioni. Dal punto di vista degli Stati Uniti l’utilizzo di questa arma micidiale, su cui pure in molti nutrivano seri dubbi, era considerato l’unico modo per porre termine alla Seconda Guerra mondiale. Così, infatti, avvenne: il 15 agosto 1945 Tokyo si arrese. Sorge però spontanea una domanda: non bastava, per ottenere lo scopo in questione, lanciare una sola bomba? Perché dopo Hiroshima, oltretutto con la consapevolezza dei devastanti effetti dell’atomica, distruggere anche Nagasaki?
Forse non avremo mai una risposta. Ma è giusto continuare a riflettere sulla crudeltà degli uomini, non sventolando ideologiche e vuote bandiere pacifiste o presunte tali, ma ricordando, in questo caso, le centinaia di migliaia di vittime di “Little boy” e “Fat man”, sia quelle annientate in seguito ai lanci degli ordigni, sia quelle perite negli anni successivi per le devastanti conseguenze. E anche tutti coloro per i quali, dopo quel dramma, la vita non è più stata la stessa.
Vogliamo farlo con due storie che affondano le loro radici nelle tradizioni e nel modo di essere del popolo giapponese. La prima è quella del giornalista e fotografo americano Joe O’Donnel, che viaggiò a lungo per documentare gli effetti della bomba atomica. Celebre, in particolare, un suo drammatico scatto, a proposito del quale l’autore racconta: “Ho visto un ragazzo di circa dieci anni a piedi. Il viso era contratto. Portava un bambino sulla schiena”, con “la testa piegata come se fosse addormentato. Il ragazzo stette lì fermo per alcuni minuti. Poi gli uomini in maschera bianca gli si avvicinarono e cominciarono a togliere la corda che legava il bambino. Allora ho visto che era morto. Gli uomini lo presero e lo adagiarono sul fuoco. Il ragazzo era immobile, fissava le fiamme. Si stava mordendo il labbro inferiore così forte che brillava di sangue. La fiamma bruciava bassa come il sole che scendeva”. Poi “il ragazzo si voltò e se ne andò in silenzio”. Con gli occhi lucidi ma senza una lacrima.
La seconda storia è quella delle gru di carta. Secondo un’antica leggenda giapponese a chi realizza mille origami a forma di gru è consesso realizzare un desiderio. Per questo Sadako Sasaki, una undicenne di Hiroshima che per le radiazioni della bomba si ammalò di leucemia, cominciò a creare gru con qualsiasi carta aveva a portata di mano. La malattia, purtroppo, le impedì di portare a termine il compito che si era prefissata: quando Sadako morì, il 25 ottobre del 1955, si dice che ne avesse completate 644. Terminarono per lei i suoi amici e le mille gru vennero seppellite con lei.
A Sadako, nel Parco della Pace ad Hiroshima, è stata dedicata una statua che la raffigura mentre tiene in mano una gru di carta e la tende verso il cielo, a ricordare non solo lei ma anche tutti i bambini morti per la bomba atomica. Accanto c’è un’urna in cui i visitatori possono deporre un origami con un pensiero. E sotto una targa con su scritto “Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pace nel mondo”. Pace giusta, memoria e verità.