Da mesi la sinistra si batte contro la riforma costituzionale che sta portando avanti la maggioranza. In realtà contro ogni riforma proposta dal centrodestra. Il premierato su tutti: dopo aver abbandonato la narrazione del “giù le mani dal Presidente della Repubblica”, compreso finalmente che la riforma non vuole eliminare la sua figura né declassarla, è stata portata avanti quella del “giù le mani dalla Costituzione”, come gridato nelle scorse ore da Elly Schlein in seguito a un’intervista del presidente del Senato La Russa a Repubblica. Il filo unico che unisce le sinistre è sempre lo stesso: il racconto sulla sempre prossima deriva autoritaria. Il premierato accentrerà i poteri in un unico uomo al potere, l’autonomia differenziata spaccherà il Paese in Regioni sempre più ricche e Regioni sempre più povere, la riforma della giustizia bloccherà la magistratura e la sottoporrà al potere dell’esecutivo. Insomma, a sentirli parlare, sembra quasi che l’Italia sia lì lì per tornare sotto una feroce dittatura.
Ovviamente, non è affatto così, anche perché nell’esasperazione dei contenuti delle riforme, non si parla dei loro effetti benefici sull’ordinamento statale: un governo stabile per cinque anni rispetterebbe la volontà dei cittadini espressa con il voto, avrebbe tempo per attuare il programma elettorale e zero alibi per non farlo, sarebbe un buon biglietto da visita per partner e investitori internazionali, che vedono la stabilità di un governo come un buon motivo per fidarsi di quel Paese. L’autonomia differenziata permetterebbe di scovare le Giunte meno virtuose, pur sempre nel rispetto dei Lep. La separazione delle carriere tutelerebbe la difesa, la stretta sulle intercettazioni i terzi non coinvolti nel giudizio, la creazione di un secondo Csm dedicato ai giudici disciplinare dei giudici ridurrebbe la divisione in correnti della magistratura.
E poi, verrebbe quasi da dire, da che pulpito viene la predica. Perché se negli ultimi anni c’è qualcuno che ha toccato la Costituzione, questa è stata la sinistra nei suoi 10 anni e più di governo quasi ininterrotto. Ma loro, si sa, sono i democratici, diretti discendenti di quei Padri costituenti che non sappiamo quanto gradirebbero essere reputati gli avi di leader che rappano sui palchi e ballano ai Gay Pride.
Dal M5S a Renzi: quando il Pd non si preoccupava di toccare la Costituzione
Ad ogni modo, l’ultima riforma della Costituzione è targata Cinque Stelle: con la legge costituzionale numero 1 del 2021, dopo un referendum popolare, il Movimento Cinque Stelle riuscì ad abbassare l’elettorato attiva del Senato a 18 anni e, al contempo, a ridurre il numero dei parlamentari. Una riforma anti-casta, si disse, per ridurre anche i costi dello Stato: il risparmio è stato di un caffè al giorno. E in quel caso nessuno fiatò, malgrado si ebbe il paradosso di una repubblica parlamentare che riduceva il numero dei suoi parlamentari, sulla carta il centro dell’ordinamento giuridico.
Ma si ricordi, pure, la riforma che Matteo Renzi voleva attuare da capo del governo nel decennio scorso, quando guidava con sé tutto il Pd e non solo, come fa adesso, i nostalgici della vecchia tendenza liberal. Renzi in pratica voleva abolire il bicameralismo perfetto, il grande vanto della sinistra, garanzia contro ogni forma di totalitarismo, e ridurre il Senato a una sorta di camera secondaria delle rappresentanze locali, un po’ come accade in Germania. L’attuale leader di Italia Viva fece una figuraccia al referendum tanto da doversi dimettere, ma anche allora il Pd appoggiò a pieno la riforma. Il dubbio, dunque, sorge spontaneo: non sarà forse l’opposizione dem alla riforma Casellati e a tutte le riforme dell’attuale maggioranza, una forma di chiusura aprioristica soltanto perché è la destra, adesso, a proporle?