Iscrizione tra gli indagati, atto dovuto o voluto? Da sempre denunce ignorate: i precedenti

Non è la prima volta che un Presidente del Consiglio risulta iscritto nel registro degli indagati. Per la precisione, Giorgia Meloni è la quarta premier della storia a essere indagata. Prima di lei, altri tre casi: Silvio Berlusconi, Romano Prodi e Giuseppe Conte.

Troppe analogie con Berlusconi nel 1994

Raccontiamo i fatti. Ovviamente la vicenda più nota è quella di Berlusconi, il fondatore di Forza Italia che si trovò, venti anni prima di Giorgia Meloni, a tu per tu con una magistratura a cui, forse, non è mai sceso giù un progetto cardine del centrodestra: la separazione delle carriere tra pm e giudici. Al tempo del suo primo mandato, nel 1994, Berlusconi apprese di essere indagato mentre era a Napoli, presiedendo la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, alla presenza dei rappresentanti di circa 140 Paesi. L’accusa era di corruzione, la notizia la lanciò il Corriere della Sera. Troppe, insomma, le analogie con il presente, tanto che è intervenuta direttamente la figlia di Berlusconi, Barbara, per commentare la vicenda al Tg1: “Non voglio entrare nel merito della vicenda, ma non può sfuggire la coincidenza dell’avviso di garanzia alla premier Meloni contestualmente alla riforma in discussione sulla separazione delle carriere dei magistrati. Il pensiero va all’avviso di garanzia che ricevette mio padre mentre presiedeva il G7 a Napoli. Non so se si tratti, come la definiva lui, di giustizia a orologeria ma il sospetto è legittimo”.

La discrezionalità del procuratore

Nel 2007 Prodi fu indagato per abuso d’ufficio circa l’attività di un presunto comitato d’affari. In tempi più recenti, c’è l’iscrizione di Giuseppe Conte per la gestione della pandemia. Tantissime le denunce che ricevette il presidente del Movimento Cinque Stelle. Tanto che Conte, appresa la notizia delle indagini per Meloni, ha ripercorso il suo passato da premier dicendo: “Io sono stato attaccato sul piano politico da FdI, quando l’attuale vicepresidente di Regione Lazio, fece un esposto mettendo in mezzo la mia compagna. In quel caso Meloni disse che ‘non dovevo permettermi di parlarne pubblicamente, ma farlo nelle sedi opportune. L’ho fatto senza frignare”. La tesi di fondo è che l’iscrizione di Meloni sia stato un atto dovuto, ma è chiaro che non è così. In primis perché vale, più di tutto, la discrezionalità del procuratore. In secondo luogo perché, com’è accaduto in passato, non sempre le denunce devono tradursi in indagini per i premier. E lo ha spiegato bene Sara Kelany, deputato di Fratelli d’Italia, ad Agorà, in un botta e risposta con Luca Sommi del Fatto Quotidiano: “Le faccio presente – ha detto Kelany – che ne esistono altre [di denunce al presidente Conte, ndr] molto circostanziate, con allegati, che non hanno dato origine proprio a nulla, presentati ad esempio dal nostro attuale presidente Galeazzo Bignami. Quella non ha dato esito di alcun tipo: non è stato notificata alcuna informativa, non sono stati informati i denuncianti. Nulla: neanche arrivati al tribunale dei ministri. Questo ci dimostra che il margine di discrezionalità del pubblico ministero quando gli arriva una denuncia di questo tipo c’è sempre, altrimenti i tribunali per i ministri sarebbero invasi da denunce di chicchessia”.

L’atto era chiaramente un atto voluto – ha detto a chiare lettere la diretta interessata, la premier Giorgia Meloni –  e tutti sanno che le procure in queste cose hanno la loro discrezionalità, come del resto è dimostrato dalle numerosissime denunce che i cittadini hanno fatto contro le Istituzioni e sulle quali si è deciso di non procedere con l’iscrizione nel registro degli indagati. Pensiamo al periodo del Covid: tutti potrebbero fare decine di esempi”. Ma in questo caso, la denuncia di un cittadino (ex sottosegretario del Governo Prodi), unita con l’operato di un procuratore che ha già mandato a processo un ministro dell’Interno (Matteo Salvini) e che ha risposto con estrema lentezza e per sommi capi alle richieste della commissione d’inchiesta sul Covid, ha dato vita a una denuncia che non può non essere ricollegata ai lavori sulla separazione delle carriere, che continuano imperterriti in Parlamento e che spaventano pochi (per fortuna) giudici.

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