Il 15 febbraio scorso, presso Villa Pamphili, Roma, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accolto il suo omologo rumeno Marcel Ciolacu per un vertice bilaterale Italia-Romania. Il summit è stato caratterizzato dalla sottoscrizione di memorandum d’intesa, accordi tecnici e lettere d’intenti, riguardanti più settori: difesa, cooperazione di polizia, Giustizia, start up, energia nucleare, cybersicurezza, turismo, protezione civile e la formazione dei funzionari pubblici. È stato rilanciato con maggiore impegno il partenariato strategico fra due Nazioni che hanno tantissimo in comune. Oltre alla medesima e nota appartenenza alla Ue e alla Nato, più di 50 mila aziende di italiani sono registrate in Romania, e l’Italia, a sua volta, conta più di un milione di rumeni immigrati e residenti nella Penisola, che costituiscono la più grande comunità straniera presente. Sebbene una parte di Occidente voglia cancellare la Storia, le radici contano e non si può ignorare come la Romania, che sfoggia la romanità persino nel proprio nome, rappresenti un’isola latina in un mare slavo. Infatti, il premier rumeno Ciolacu ha annunciato che il suo Paese parteciperà al restauro della Colonna Traiana, che celebra la conquista romana della Dacia, l’odierna Romania, da parte dell’Imperatore Traiano. Ciolacu e Meloni hanno affrontato insieme il tema Giustizia e la collaborazione a tal proposito fra Roma e Bucarest, e si è parlato della vicenda del cittadino italiano Filippo Mosca detenuto in Romania. Mosca si trova in carcere non per bazzecole, bensì per traffico di droga, ma i suoi legali e la famiglia, come accade per Ilaria Salis, ristretta nelle prigioni ungheresi e anche lei in base a reati non lievi, (aggredire persone con un martello non è proprio come rubare una merendina al supermercato), lamentano condizioni invivibili di detenzione del loro assistito e congiunto.
Coloro i quali hanno strumentalizzato il caso Salis, non si stanno agitando più di tanto per Filippo Mosca, che merita anch’egli, non di tornare libero o essere assolto dalle proprie colpe, ma di scontare la pena in un contesto accettabile. Se si vuole essere obiettivi al cento per cento, sfida difficile questa per Elly Schlein e Giuseppe Conte, bisogna anzitutto riconoscere che i sistemi penitenziari di Paesi come Ungheria e Romania, ma anche di altri loro vicini un tempo aderenti al Patto di Varsavia, non siano il massimo in effetti. Tale realtà è però dovuta ad un retaggio dei vecchi regimi comunisti, imperanti tanto a Budapest quanto a Bucarest fino al 1989 e di sicuro poco liberali e garantisti. A qualcuno, erede in Italia proprio di chi osannava le dittature rosse dell’Est europeo, viene naturale usare il “guinzaglio” di Ilaria Salis per demonizzare ancor più Viktor Orban, scomodo e scorretto per le varie sinistre, ma il premier ungherese c’entra davvero poco. Non si è potuto non parlare, durante l’incontro di Villa Pamphili, di Nato e guerra in Ucraina, visto il coinvolgimento europeo, quindi, anche italiano, e considerata la vicinanza geografica della Romania all’Ucraina, con la quale confina in maniera diretta.
Giorgia Meloni ha esortato l’Alleanza Atlantica alla massima coesione, sempre e soprattutto in questo momento storico in cui perdura l’aggressione militare russa in territorio ucraino. La Nato si è ritrovata al centro di molti dibattiti negli ultimi giorni, anche a causa di quanto è stato affermato da un Donald Trump ormai già totalmente immerso nella campagna elettorale per le Presidenziali USA. L’ex presidente americano, ribadendo delle posizioni già assunte durante la prima discesa in campo che lo condusse poi alla vittoria nel 2016, ha ammonito i Paesi membri della Nato, l’avvertimento è chiaramente rivolto a quelli del Vecchio Continente, affinché vi sia una maggiore partecipazione finanziaria nel mantenimento dell’Alleanza Atlantica e che lo sforzo economico non venga delegato soltanto agli Stati Uniti. In parole povere, le Nazioni europee devono versare più denaro alla organizzazione con sede a Bruxelles ed investire ulteriori risorse nella difesa. Al di là del clima elettorale negli USA, Trump solleva un argomento reale e meritevole di attenzione perché, se è senz’altro vero che l’America abbia dei doveri enormi di fronte alla coalizione occidentale di mutuo soccorso e aiuto militare, doveri superiori alle varie colorazioni politiche, che non possono essere elusi tanto dai democratici quanto dai repubblicani, è altrettanto certo che i Paesi europei siano giunti ad una fase che costringe ad un contributo più ampio nella Nato e nella difesa militare. Il nostro modo di vivere, libero, sebbene insidiato a volte anche da settori interni all’Occidente, ha subìto non poche minacce negli ultimi vent’anni, ed occorre citare il terrorismo islamico, ancora presente e vivissimo in particolare in alcune aree del mondo come il Medio Oriente, le ingerenze sempre attive di Paesi totalitari come la Cina, le sfide, infine, dell’autocrazia russa di Vladimir Putin. Quest’ultimo, come ha ricordato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, non si sta fermando in Ucraina e non si fermerà nella repressione interna del dissenso e nel radicamento in Russia di un regime sempre più brutale, testimoniati dalla triste e dubbiosa morte in carcere di Alexei Navalny, il principale oppositore di Putin.
L’Europa deve farsi trovare pronta ad ogni offesa e intimidazione anti-occidentale, e al momento, spiace dirlo, non lo è. Circa la guerra in Ucraina e il supporto che bisogna dare a Kiev, per carità, l’Unione Europea ha sempre agito e parlato come un sol uomo, e pochi giorni fa Zelensky, in visita a Berlino, ha ottenuto nuovi aiuti dalla Germania, ma l’Ue si sta rivelando ancora troppo debole. Se viene meno il cosiddetto ombrello americano o anche solo se ne percepisce una minore presenza, i progressi e i risultati iniziano lentamente a scemare. Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ha registrato come lo stallo al Congresso degli Stati Uniti sui nuovi aiuti all’Ucraina faccia già sentire il proprio effetto negativo sul campo. L’esercito russo ha conquistato proprio in queste ore la città di Avdiivka, che si aggiunge ad altri centri, tipo Bakhmut, già presi in mano dai soldati e dai mercenari di Putin, e la controffensiva ucraina non ha dato finora tutti i risultati sperati. Certo, a parte i bombardamenti aerei russi che ogni tanto vanno oltre all’Ucraina orientale, rivelandosi comunque non risolutivi per le mire putiniane perché uccidono tristemente dei civili innocenti e non piegano Kiev, i progressi sul terreno della Federazione russa rimangono circoscritti alle regioni amministrative, oblast, di Donetsk e Lugansk, appartenenti all’area geografica del Donbass russofono, situato nel Sud Est dell’Ucraina e oggetto di rivendicazioni da parte del Cremlino. All’inizio della guerra, non scordiamolo, Vladimir Putin pretendeva di invadere tutto il territorio ucraino, piazzare la bandiera russa a Kiev e cacciare Zelensky nel giro di qualche giorno, e si è dovuto limitare invece al Donbass dove foraggia da anni sedicenti repubbliche filorusse ed ora assume il controllo diretto di determinate città, ridotte purtroppo a cumuli di macerie dopo lunghi e sanguinosi scontri. Però, anche se l’aggressione militare russa è andata incontro fino ad ora a ridimensionamenti e cambiamenti, rimane cruciale, per la Nato e l’Occidente, continuare ad aiutare Kiev a difendersi da un’offensiva che comunque non si ferma, a liberare il Donbass dalle truppe di Mosca e, quando e se si affaccerà il tempo di un negoziato, a trattare non solo in base a condizioni imposte da Putin. Altrimenti, ad uscirne umiliati non sarebbero soltanto Volodymyr Zelensky e l’Ucraina, ma anche Bruxelles e Washington, indipendentemente dal presidente in carica del momento.
L’Europa, e Giorgia Meloni lo ha ricordato in più occasioni, deve imparare a fare la propria parte in termini di stabilità internazionale e nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, in modo da non trovarsi spiazzata e vanificare delle energie profuse fino ad un dato momento di fronte ad eventuali cambiamenti, giusti o sbagliati che siano, della politica estera americana.