Sia chiaro: il Reddito di Cittadinanza, di per sé, non era il male assoluto. Lo è poi diventato nei fatti, ma in partenza era nato sotto auspici abbastanza positivi, come sostenere le persone più povere, i disoccupati in cerca di lavoro, chi effettivamente non aveva la possibilità di lavorare. Scelte in linea con un’idea abbastanza corretta di welfare: dare un sostegno temporaneo in attesa di un posto di lavoro. E contemporaneamente attivare le autorità competenti affinché venissero messi in moto i meccanismi di assegnazione di un nuovo impiego. Tutto corretto, e infatti l’idea di principio del Reddito di Cittadinanza, quello che il buonsenso chiedeva che fosse il Reddito di Cittadinanza, è alla base delle nuove misure assistenziali volute dal Governo Meloni: l’Assegno di Inclusione, riservato a chi non può realmente lavorare, e il Supporto per la Formazione e il Lavoro, destinato agli ex percettori idonei al lavoro. Nei fatti, però, la misura grillina si è rivelata tutt’altro: un mero assegno mensile per furbetti, svogliati, inattivi. Rappresentando un peso per lo Stato non indifferente: il Reddito di Cittadinanza è costato 35 miliardi di euro in quattro anni.
Grillini senza strategia
La differenza tra il piano formale e quello sostanziale è la vera sconfitta dell’assistenzialismo grillino. Questo perché, nell’attuazione della misura, sono venuti meno quei fondamentali requisiti che rendono una spesa, anche ingente, dello Stato, un investimento dal quale tutta la comunità nazionale può trarre beneficio. Il Reddito, in partenza, aveva buoni propositi: poteva far rinascere l’economia, farla circolare, favorire la spesa, aumentare gli incassi in alcuni settori. Nulla di tutto ciò è andato a buon fine, mancando la vera finalità della misura: per funzionare, l’assistenzialismo ha bisogno di una strategia di base. E regalare soldi dalla finestra senza limiti, spiace per i grillini, ma non costituisce alcuna strategia. Forse in termini “elettorali” si avrà qualche effetto benefico, ma non certo in campo economico.
Il bonus mamme concilia lavoro e famiglia
La differenza tra il mero assistenzialismo grillino e le misure “sociali” del nuovo esecutivo a guida Fratelli d’Italia è tutta qui: Giorgia Meloni, a differenza di Giuseppi Conte e di Giggino Di Maio, ha previsto una strategia. L’Assegno di Inclusione è riservato solo a chi non può lavorare, a chi si prende cura di anziani o di disabili; il Supporto per la Formazione e il Lavoro assiste chi si sta formando per rientrare. E così via: tutte le misure avranno il loro significato di fondo. Come pure il bonus mamme, ideato dall’esecutivo di centrodestra e riservato per le madri lavoratrici con due o più figli, sia nel settore pubblico che in quello privato. Una misura, questa, finalizzata a favorire la natalità e il mondo femminile, affinché quella tra famiglia e carriera non sia più una scelta aut aut: incentivare la natalità vuol dire supportare anche la genitorialità, in modo tale da rendere possibile la conciliazione tra lavoro e famiglia.
Da maggio anche per le dipendenti statali
Proprio sul bonus mamme, giunge una buona notizia: finalmente si sblocca lo sgravio anche per le mamme lavoratrici della pubblica amministrazione. Un’attesa durata qualche mese a causa di alcuni cavilli tecnici ora risolti: da maggio, le mamme del settore pubblico potranno ricevere lo sgravio, con tanto di arretrati sugli stipendi precedenti. Uno sgravio che consiste nell’azzeramento totale dei contributi previdenziali a carico del lavoratore. Il massimo è di tremila euro annui, il che si traduce in circa 150 euro mensili in più in busta paga. La misura, dunque, rientra tra le altre previste dal governo per sostenere la natalità e le donne lavoratrici: anche in questo caso, dunque, la strategia è ben calibrata, riguardando una platea di 800mila persone e con un costo complessivo di circa 450 milioni di euro previsti nell’ultima legge di Bilancio.