La trappola ideologica della “religione antifascista”

Fascismo e, di conseguenza, antifascismo, sono due termini che, se vivessimo in una società corretta, dovrebbero far parte della storia e non della cronaca contemporanea. Purtroppo per noi tutti, però, non è così. Senza entrare nel dettaglio, perché per comprendere la fondatezza di quanto rileviamo basta sfogliare qualunque giornale, accade infatti quasi quotidianamente che da sinistra si paventi un indefinito “pericolo fascista”, che di volta in volta assume la forma dell’avversario, della manifestazione, della presa di posizione contraria alla narrazione mainstream politicamente corretta. Un pericolo di fronte al quale, a detta di chi lo ritiene reale e concreto, occorre alzare le barricate dell’antifascismo.

Di questa tendenza, tanto diffusa quanto pericolosa, si è occupato nel suo ultimo lavoro Roberto Lobosco. Il suo volume, edito da Idrovolante edizioni, si intitola Religione antifascista e mira a svelare – così spiega il sottotitolo – “la trappola ideologica della politica moderna”. 

Nel saggio, storicamente molto documentato, l’autore parte dal presupposto che oggi l’antifascismo “rappresenta una nuova religione civile che, per fini del tutto strumentali, tiene in vita un periodo storico esaurito ed archiviato”. Dunque perché, se il fascismo è morto e sepolto, si pretende continuamente che ci si professi antifascisti? Secondo Lobosco si tratta di un modo per “delegittimare tutti i soggetti politici ed intellettuali che non si riconoscono nel progressismo”. Con conseguente inquinamento dello scenario politico attuale con dibattiti e confronti su un tema costruito e artefatto. “Come ogni religione – scrive l’autore – anche l’antifascismo si fonda su dogmi indiscutibili. In primo luogo l’ossessione relativa al pericolo del ritorno di un fascismo che non sarebbe mai veramente morto” ma che sarebbe anzi invece “pronto a risorgere, incarnato di volta in volta da diverse personalità politiche ed intellettuali ritenute un ostacolo. Il secondo dogma riguarda la distinzione manichea del mondo tra fascisti e antifascisti, con la relativa disumanizzazione dei primi, considerati un costante pericolo su cui dover vigilare”.

Le conseguenze pratiche di questa impostazione sono evidenti: per evitare il (presunto) ritorno del fascismo occorre agire con qualunque mezzo. Anche (e se ne è avuto più di qualche esempio)  negare a coloro che sono ritenuti “fascisti” il diritto di parola e addirittura, questo il rischio più serio e pericoloso, di esistenza. Perché se il presupposto è che il bene sta tutto da una parte (l’antifascismo) e il male dall’altra (il fascismo) la conseguenza è il possibile ritorno ad un clima di scontro violento in cui si sentiva gridare “uccidere un fascista non è reato”.

Un clima di cui, tra gli altri, nel 1978 sono stati vittime, ad Acca Larenzia, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni. Della vicenda della targa commemorativa rimossa a picconate dal Comune di Roma e relative polemiche vi abbiamo raccontato ieri nell’articolo PD e Anpi ancora contro Acca Larenzia: solito alibi fascista per non parlare di terrorismo rosso

Resta da aggiungere un’ultima considerazione, che lega la cronaca di queste ore al tema trattato da Roberto Lobosco nel suo saggio. Come scrive sui social Daniele Dell’Orco, giornalista e fondatore di Idrovolante edizioni,  “nell’Italia del 2025 la memoria di tre giovani martiri innocenti, ammazzati solo perché missini, viene ancora infangata non solo dai paladini dell’antifascismo militante, ma anche dalle istituzioni, che usano l’artefatta associazione tra i fatti dell’epoca e un inesistente nostalgismo contemporaneo per negare la storia. Uno schema ormai collaudato, tipico della religione antifascista”.

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Cristina Di Giorgi
Cristina Di Giorgi
Cristina Di Giorgi, due volte laureata presso l'università La Sapienza di Roma (in giurisprudenza e in scienze politiche), è giornalista pubblicista e scrittrice. Collabora con diverse testate e case editrici.

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