Mafiosi scarcerati: i giudici perdono tempo dietro l’Albania e si lasciano scappare i boss

Tra cavilli, tecnicismi e lungaggini varie, la magistratura perde colpi nella lotta alla mafia. Troppi boss scarcerati, ma il problema per le toghe rosse è l’accordo con l’Albania

La mafia trae vantaggio dagli errori, i cavilli e le lungaggini della malagiustizia. Il messaggio inviato questa mattina da Live Sicilia è chiaro: lo Stato non può permettersi di scarcerare altri mafiosi. E non si tratta soltanto di scagnozzi, ma molto spesso anche di pezzi da novanta, in prigione per anni ma liberati dalla decorrenza dei termini massimi per la sentenza.

Cavilli e scarcerazioni

L’ultimo caso denunciato è quello di Giuseppe Corona, il “re delle scommesse” all’Ippodromo di Palermo, accusato di riciclaggio e intestazione fittizia, coinvolto probabilmente anche in alcuni traffici di droga. Era al 41 bis, in regime di carcere duro. Ora è libero perché, in sostanza, il processo ha fatto tardi: è rimasto in carcere per sei anni, il tempo massimo consentito prima della sentenza definitiva.

Ma come lui ci sono molti altri personaggi. C’è, ad esempio, Giuseppe Di Giovanni, consuocero del boss Giuseppe Incontrera, ucciso nel 2022. Anche Di Giovanni è stato scarcerato, nel luglio 2023, per decorrenza dei termini dopo che alcuni atti non vennero notificati alla difesa. Poi c’è il caso dei fedelissimi trapanesi di Matteo Messina Denaro: anche per loro, il passaggio dal 41 bis alla libertà è stato un attimo. Pure in questo caso, colpa della decorrenza dei termini. In altre parole, è una giustizia che tra cavilli giudiziari, tecnicismi e ritardi, forse colpevoli, forse no, lascia liberi boss mafiosi non da poco, liberi di tornare a gestire i loro affari quasi come se nulla fosse mai accaduto.

L’ingerenza nella politica

E mentre la giustizia perde colpi e lo Stato, di fatto, terreno nella lotta alla mafia con una problematica e oggettivamente preoccupante reiterazione delle stesse motivazioni, esiste una parte più o meno grande di magistratura che si perde invece dietro affari di politica interna, che mal si conciliano con il principio di terzietà del giudice.

Negli ultimi giorni, su tutti i giornali si parla della questione dei migranti in Albania, rispediti in Italia dopo che il tribunale di Roma non aveva convalidato il trattenimento dei sedici migranti nei nuovi centri per i rimpatri di Shengijn e Gjader: la giudice Silvia Albano, di Magistratura Democratica, la corrente rossa del Csm, ha reputato i loro Paesi di provenienza “non sicuri” malgrado fossero stati inseriti nella lista dei Paesi sicuri stilata dall’esecutivo. Sedici sentenze, anzi tecnicamente decreti, uno per migrante, stilati in brevissimo tempo, con una celerità che, se usata nella lotta contro la mafia, frutterebbe ben altri risultati. Celerità frammista alla quasi totale corrispondenza tra loro dei vari decreti, cosa che ha fatto riflettere molti su una presunta premeditazione del fatto.

Ma anche lo stesso tribunale di Palermo aveva anticipato la mossa del tribunale di Roma, liberando cinque tunisini dai Cpr siciliani con le stesse motivazioni utilizzate da Albano. Per non parlare, poi, dello scoop lanciato dal Tempo domenica mattina, con la pubblicazione della mail inviata dal sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello in cui riportava all’attenzione dei colleghi l’operato di Giorgia Meloni, da fermare perché ha “come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione e non semplicemente un salvacondotto”. È dunque chiaro che se certa giustizia iniziasse a fare meno politica e a occuparsi del lavoro da sbrigare, cavilli e tecnicismi non sarebbero più una manna dal cielo per i mafiosi.

L’irritazione di fronte alla riforma

C’è però un altro episodio che il giornale siciliano riporta all’attenzione dei suoi lettori: quello di Giovanni Lucchese, Claudio D’Amore, Giuseppe Caserta, che nel 2021 sono tornati liberi nonostante la condanna in primo grado. Sono tornati liberi in attesa di processo perché la Cassazione azzerò il processo in appello. Il motivo fu l’incompatibilità del giudice, in quanto fu proprio lui a firmare, in qualità di gip, alcuni decreti di intercettazione.

Un conflitto di interessi che sarà evitato, quando verrà completata nelle prossime settimane la riforma della Giustizia, su cui il Governo Meloni e la maggioranza lavorano da tempo. In prima linea c’è proprio la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, tra giudice e pm, volta proprio a tutelare le parti e, più in generale, a evitare conflitti come quello riportato.

A questa si aggiunga anche una riforma, si può dire, del potere di autodisciplina del Consiglio Superiore della Magistratura, che invece ha portato a divisioni correntizie che si ripercuotono non solo sull’operato della giustizia, ma anche sulle decisioni disciplinari dei singoli giudici, che variano a seconda dell’appartenenza o meno del singolo a una data corrente. Dunque l’idea di creare due Csm, con la cosiddetta Alta Corte disciplinare che andrà a sostituire il primo in questa materia. Il disegno di legge, approvato già in Consiglio dei Ministri, arriverà in Parlamento probabilmente alla fine di novembre, secondo quanto rivelato da LaPresse.

Si legga anche in questo senso l’irritazione di certa magistratura, preoccupata da una completa riforma della giustizia che passa anche per misure già approvate nel luglio scorso, quali l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, la riformulazione del reato di traffico di influenze illecite e la tutela sulle intercettazioni. Irritazione che porta a mettere bocca anche su atti la cui conformità al diritto costituzionale e comunitario sarebbe normalmente attenzione di altri organi, come la Corte costituzionale. D’altronde, ha ragione Patarnello: non è un semplice salvacondotto.

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