“Quota cento”? Favorisce gli uomini. Donne penalizzate.

Uno dei cavalli di battaglia messo in campo soprattutto da Salvini e dalla Lega all’interno del decreto fiscale, è stato il tanto sbandierato “superamento della Fornero”. In effetti, la legge Fornero non piace nemmeno a noi, e volerla superare non è poi male, ma la “Quota cento” che dovrebbe essere l’escamotage per riuscirci, non ci pare azzeccata per tanti motivi, non ultimo la sperequazione che tende a creare tra uomini e donne.

Come ormai sanno anche quelli che preferirebbero non sapere, le donne a parità di condizioni guadagnano meno degli uomini, mentre le pensioni al femminile sono mediamente più basse del 37%, e questo non solo perché le lavoratrici guadagnano meno, ma perché hanno anche una vita lavorativa più breve.

Sono più pigre rispetto agli uomini, hanno meno voglia di lavorare? Naturalmente, no. Il problema, come anche qui è sotto gli occhi di tutti, è che le donne mettono al mondo i figli, e molto spesso per questo devono interrompere la loro carriera o, più semplicemente, il percorso lavorativo. Stesso problema, quando si presenta la possibilità di dover assistere un famigliare, un genitore anziano ad esempio, e anche in questo caso sono sempre le donne ad accollarsi il problema. Normale da una certa angolazione, visto che l’uomo guadagna tanto di più, conviene comunque che a sacrificarsi sia la donna.

Così, nel caso di Quota cento, difficilmente una donna accumulerà nei sessantadue anni d’età necessari i 38 anni di contributi che servono per scivolare in pensione, da una stima fatta si parla di una per ogni 10 maschi. Detto ciò, passiamo a vedere se ci sono soluzioni.

In un interessante articolo uscito sulla rivista F, in proposito sono state intervistate Chiara Saraceno, docente di filosofia all’Università di Torino e sociologa nonché una delle massime esperte italiane di famiglia e questioni femminili, e Linda Laura Sabbadini, statistica, pioniera degli studi di genere in Europa ed editorialista de La Stampa.

A entrambe le esperte è stato chiesto come potrebbe essere risolta questa evidente ingiustizia, e tutte e due hanno risposto in maniera molto simile. Si tratterebbe, hanno detto, di riconoscere alle donne i contributi lavorativi in base ai figli e ai famigliari assistiti. In particolare, Linda Sabbadini sostiene che un anno e mezzo di contributi versati per ogni figlio potrebbero permettere a una donna che ha avuto due maternità di andare in pensione con 35 anni di contribuiti. Non solo, ma sempre secondo la Sabbadini, una simile soluzione avrebbe anche l’effetto simbolico di riconoscere il “doppio lavoro” delle donne” quello fuori casa ma soprattutto  quello in casa, solitamente disconosciuto

Chiara Saraceno ha fatto presente che in Germania già viene applicata questa sorta di “bonus contributivo”, con 1 anno di contributi riconosciuto per ogni figlio fatto. Stessa cosa anche per gli altri familiari a carico. La Saraceno in proposito ha anche evidenziato di aver fatto già anni fa una proposta in questo senso che però è caduta nel vuoto, preferendo privilegiare scelte come l’anticipo a 58 della pensione per le donne, condannando di fatto le lavoratrici a pensioni spesso ridicole.

In proposito la Sabbadani dice che le donne con una pensione inferiore a mille euro sono il doppio degli uomini, conseguenza di quello che lei chiama “il percorso ad oscoli” della vita lavorativa di una donna. Entrambe, poi, trovano la soluzione ”Quota cento” poco valida. La Saraceno perché sostiene che avvantaggia spudoratamente gli uomini in un periodo in cui invece bisognerebbe riconoscere il lavoro delle donne come contributo specifico per la società. Le fa il coro Linda Sabbadani,   ribadendo come Quota cento abbia sistematicamente penalizzato le donne.

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RK Montanari
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