Storie di serie B, morti figli di un dio minore, cancellati a forza dalla memoria dei discendenti perché portatore di verità troppo scomode. La storia la scrivono i vincitori, certo, ma con l’instaurarsi di una democrazia i racconti di fatti, uccisioni e crimini ingiusti dovrebbero essere sempre vivi, fare da monito, in modo che tali episodi non si ripetano più. E invece, quel mondo comunista che si è imposto nella Seconda Guerra Mondiale ha continuato a influenzare la politica occidentale, specialmente quella dell’Italia, riconosciuta come terra europea di primo e più ampio approdo delle idee sovietiche. Portando, così, anche le neo-affermatesi democrazie a scegliere la via di una damnatio memoriae, madre della odierna cancel culture, verso tutti i crimini ingiusti commessi durante la guerra (e oltre) dall’ideologia comunista. Sono state cancellate, per troppo tempo, le vittime delle foibe e zittiti i loro familiari e gli esuli, cacciati con le cattive dalle proprie terre natie a opera del dittatore comunista della Jugoslavia, Tito, in linea con la sua strategia di pulizia etnica dei territori oramai non più italiani. È stato tentato di minimizzare, più e più volte, la strage di Acca Larentia (l’ultimo tentativo, il libro di Valentina Mira finalista al Premio Strega) dove tre militanti del Fronte della Gioventù furono assassinati da ignoti, probabilmente appartenenti all’estrema sinistra, soltanto per il loro credo politico. E al loro pari, si cercò di ridurre la portata anche di altri fatti degli anni di piombo. Alcuni nomi su tutti: Sergio Ramelli, Carlo Favella, il rogo di Primavalle. Una riscrittura storica che uccide le vittime una seconda volta.
La storia del “martire bambino”
Tra i nomi delle vittime dimenticate della Seconda Guerra Mondiale, c’è quello di Rolando Rivi, il “martire bambino”, che trovò la morte a 14 anni a causa dell’odio rosso non per il suo credo politico, ma per quello religioso. Ucciso perché cristiano, in preda a quella furia comunista che portò via, tra gli altri, anche parecchi credenti e parroci. Lui, seminarista, il 10 aprile del 1945 venne rapito dai partigiani comunisti e per tre giorni fu torturato e umiliato: l’accusa era quella di essere una spia dei fascisti. Prima di morire, chiese una tregua dalle percosse per rivolgere una preghiera ai genitori. Richiesta accolta, ma la sua vita terminò ugualmente quel 13 aprile. Alcuni anni dopo, la Corte di Assise di Lucca della neonata Repubblica italiana condannò alcuni ex partigiani a 23 anni di reclusione. Mentre nel 2006, dopo alcune guarigioni miracolose a lui attribuite, è partito l’iter per renderlo beato: il 5 ottobre 2013 si consumò la cerimonia di beatificazione presso la Chiesa cattolica.
La sinistra ideologica non storicizza il suo passato
Un martirio che ha ricevuto la giusta celebrazione sabato, a Castellerano, con il ricordo del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, il quale ha sottolineato come una sentenza giudiziaria e una consacrazione religiosa non siano state abbastanza per ridare dignità a Rivi: “C’è una sottovalutazione storica – ha detto ai microfoni di Rai News – nel senso che la vicenda e la personalità di Rivi non hanno avuto in questi anni una adeguata narrazione”. Durante la cerimonia, poi, il diretto riferimento all’Anpi: “Vorrei vedere qui i vertici dell’Anpi a chiedere scusa a Rivi per quello che è accaduto. Ovviamente non c’è una responsabilità diretta da parte dei vertici attuali, questo è scontato. Però sarebbe bello se loro si unissero a noi nel ricordare questa figura”. Un riferimento ai militanti dell’Anpi doveroso: considerandosi eredi diretti di quel mondo partigiano, il patrimonio pesa. E come tutti i patrimoni, è fatto di attività e passività. Dunque, oltre i meriti di aver “liberato” l’Italia, andrebbero “saldati” anche quei debiti che si contano in vite umane. Ma tutto ancora tace: le vittime dell’odio rosso restano ingiustamente vittime di serie B e la sinistra ideologica non riesce ancora a storicizzare il proprio passato.