Secoli di speculazione filosofica sul rapporto tra borghesia e proletariato – dalla sinistra hegeliana al criticismo feurbachiano, dal pensiero socialista di Karl Marx e Friedrich Engels al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, dal mutualismo di Proudhon fino alle “innominabili” teorie bergsoniane – per arrivare al dispiegarsi di una concreta ed impietosa accettazione della realtà: l’idea di giustizia sociale è stata travolta dall’offensiva armata del mondialismo, lasciando attoniti anche i più irriducibili progressisti, il cui dogmatismo ideologico è stato per anni un prisma inoppugnabile.
La lotta allo sfruttamento sociale, dopo una lunga marcia, si consegna, armi e bagagli, al mercato globale e alle sue logiche del profitto, dopo averne vagheggiato la distruzione per secoli. È cambiata la modalità, ma non il fine: dall’hard power delle fabbriche 800esche, al soft power dell’umanitarismo contemporaneo. Il capitale utilizza gli allogeni per far crollare il prezzo del lavoro, in un’ottica di massimizzazione dei profitti e precarizzazione della forza-lavoro. È una logica basilare, che Marx chiamava “rimpiazzare una forza superiore e più cara con una inferiore e meno cara”. Così, l’uomo al posto della donna, il giovane al posto dell’adulto, l’immigrato al posto dell’europeo.
Al netto delle indagini di pensiero, appare evidente l’aporia di una sinistra che – dinanzi a tutto questo – continua ad incentivare i fenomeni migratori, fornendo manodopera a basso costo per il neo-schiavistico sistema capitalista.