Trump sfida i media, Kamala se stessa: stanotte il dibattito della verità

Finalmente ci siamo. Tra poche ore assisteremo a quello che potrebbe essere il primo e unico dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump. Un appuntamento imperdibile, carico di tensione e aspettative. I dibattiti televisivi, come sappiamo, hanno sempre avuto un ruolo cruciale nelle elezioni presidenziali americane. Ma quali sono stati quelli davvero decisivi? Quelli che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia degli Stati Uniti? Scopriamolo insieme.

La storia dei dibattiti televisivi inizia nel 1960 con il leggendario confronto tra Richard Nixon e John F. Kennedy. Nixon, scomodo e sudato di fronte alle telecamere, contro un Kennedy rilassato e telegenico. Un confronto che cambiò per sempre la percezione della politica americana, segnando l’inizio di una nuova era mediatica. Il risultato di quell’incontro è noto a tutti: un trionfo per Kennedy, un disastro per Nixon.

Passiamo al 1976. Durante un dibattito con Jimmy Carter, Gerald Ford dichiarò che non vi era alcuna dominazione sovietica sull’Europa orientale, insistendo che paesi come la Polonia, la Romania e la Jugoslavia fossero liberi dal controllo di Mosca. Un’affermazione assurda, che suscitò incredulità in tutto il mondo e si rivelò un grave errore politico.

Nel 1984, Ronald Reagan – già presidente più anziano della storia degli Stati Uniti a candidarsi per la rielezione – fu messo in difficoltà su una domanda relativa all’età. La sua risposta, tuttavia, fu un capolavoro di umorismo e intelligenza politica: «Non farò dell’età un tema di questa campagna. Non intendo sfruttare, per fini politici, la gioventù e l’inesperienza del mio avversario.» Un colpo da maestro che scatenò risate e applausi a scena aperta, lasciando Walter Mondale, il suo sfidante, letteralmente senza parole.

Nel 1988, durante un dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, Dan Quayle, vice di George H.W. Bush, si paragonò a John F. Kennedy, affermando di avere più esperienza rispetto a Kennedy stesso quando diventò presidente. La risposta di Lloyd Bentsen, vice di Michael Dukakis, rimane tra le più taglienti di sempre: «Io ho conosciuto John Kennedy. Kennedy era un mio amico. Senatore, lei non è John Kennedy.» Una battuta fulminante che smantellò Quayle e divenne iconica.

Passiamo alla grande sconfitta del 2016, Hillary Clinton, che in un dibattito per le primarie democratiche del 2008 attaccò frontalmente Barack Obama per aver riconosciuto un ruolo storico alla presidenza Reagan, accusandolo di simpatizzare con le politiche ultraliberiste repubblicane. Obama non esitò a rispondere: «Non è vero. Io ho combattuto la politica reaganiana mentre tu eri un avvocato delle corporation e membro del consiglio di amministrazione di Walmart.» Una risposta che demolì Clinton in diretta, al punto che i repubblicani utilizzarono quel video durante la campagna del 2016 per scoraggiare i democratici dal votarla, evidenziando la sua incoerenza e il suo opportunismo politico.

Quattro anni dopo, alle primarie democratiche del 2020, Tulsi Gabbard – che oggi sostiene Trump – attaccò Kamala Harris, dipingendola come ipocrita e incoerente, evidenziando il suo tentativo di posizionarsi a sinistra nonostante il passato da procuratrice. Harris apparve spiazzata, incapace di reagire efficacemente. Un’anticipazione dei problemi che avrebbe incontrato nella sua carriera politica, spesso accusata di cambiare posizione in base al vento dei sondaggi.

Alcuni mesi dopo, Joe Biden durante un dibattito con Donald Trump definì «disinformazione russa» la storia del computer portatile di suo figlio Hunter, pubblicata dal New York Post. Una dichiarazione che si rivelò completamente falsa: le successive indagini mostrarono che il computer era reale e conteneva prove compromettenti, poi utilizzate per condannare Hunter Biden. Mark Zuckerberg ha recentemente ammesso che Facebook subì pressioni per censurare quella notizia, e i “TwitterFiles” rilasciati da Elon Musk hanno dimostrato che anche Twitter aveva ricevuto pressioni simili per sopprimere la storia. In altre parole, Biden e i media mainstream hanno mentito spudoratamente, manipolando l’opinione pubblica e nascondendo informazioni cruciali per l’esito delle elezioni. 

Gli stessi media che in tutti questi anni si sono arrampicati sugli specchi dipingendo Biden come “perfettamente lucido”, salvo cambiare repentinamente versione all’indomani del disastroso dibattito del 27 giugno scorso con Trump, quando cominciarono a promuovere Kamala Harris come potenziale leader, cercando di preparare il terreno per il futuro.

Alla luce di questi precedenti storici e delle dinamiche mediatiche in atto, è chiaro che il dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump potrebbe rivelarsi decisivo. Harris è stata a lungo ritratta dai media mainstream come una figura carismatica, una leader progressista pronta a prendere il timone dei democratici e della nazione. Tuttavia, i suoi comportamenti, la sua incoerenza e la sua apparente riluttanza a confrontarsi apertamente con gli avversari politici raccontano una storia diversa.

I media hanno palesemente lavorato per costruire un’immagine di Kamala Harris come una leader forte e determinata, ma la realtà è che la sua campagna elettorale ha mostrato tutt’altro. Basti pensare che, dalla sua candidatura ad oggi, Harris ha concesso una sola intervista (quella rilasciata alla CNN), mentre Donald Trump ne ha fatte circa 40. Un dato che parla chiaro: Harris appare incapace di esprimersi senza un copione e un controllo estremo su ciò che viene detto e chiesto. Quando non ha avuto la protezione dei media o uno script da seguire, come dimostra la disastrosa intervista alla CNN, ha rivelato tutte le sue fragilità, mostrando di essere totalmente priva di carisma, oltre che di una visione chiara e coerente.

Questa sera, però, Kamala Harris non potrà più contare sullo scudo dei media compiacenti o su dichiarazioni ben studiate. Sarà sul palco da sola, di fronte a un avversario noto per la sua aggressività e la sua capacità di destabilizzare chiunque abbia davanti. Dovrà dimostrare di avere la capacità di sostenere un dibattito diretto e di reggere l’urto degli attacchi senza sembrare la figura costruita che molti critici vedono in lei.

Al contrario, Donald Trump ha già dimostrato in più occasioni la sua naturale vocazione alla leadership, emersa nitidamente anche dalla sua iconica reazione all’attentato subito a Butler soltanto 59 giorni fa e archiviato in fretta e furia dai media mainstream, la cui partigianeria emerge anche dai dati dell’osservatorio conservatore Media Research Center: sulle reti ABC, NBC e CBS, la copertura su Kamala Harris risulta positiva per l’84% delle volte, mentre quella su Donald Trump è negativa nell’89% dei casi.

Buon dibattito a tutti.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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