«Non servo della partitocrazia ma eletto dal popolo: ecco i lineamenti di una Repubblica presidenziale moderna».
Così Giorgio Almirante delineava ad Enzo Biagi i tratti distintivi e necessari del “primo cittadino d’Italia” all’interno di un cambiamento organico e funzionale delle istituzioni. Eravamo nel 1983. Segno, questo, che nella sua profonda connessione sentimentale con lo spirito del tempo il leader missino aveva individuato nel presidenzialismo – già in piena Prima Repubblica – la riforma delle riforme, l’interprete più genuino di quello spirito nazionale che intendeva liberare, in questo modo, dalla morsa asfissiante del consociativismo.
Trentasei anni dopo un’altra burocrazia – decisamente più perniciosa di quella dei partiti di allora – continua a fare da schermo fra i cittadini e il decisore: quel deep state in salsa italiana, ribattezzato “terzo partito”, che proprio in questi giorni, fra il Quirinale, palazzo Chigi, Bruxelles e Francoforte, ritiene di poter bypassare senza tante spiegazioni il messaggio forte giunto dalle urne il 26 maggio nell’interlocuzione, o meglio nel braccio di ferro, con la Commissione europea. Come se, ancora una volta e in continuità sostanziale con l’arbitrio della stagione dei tecnici (ispirata in tutto e per tutto da Giorgio Napolitano…), il mandato democratico possa essere interpretato ad intermittenza. Possa aver accesso al massimo nel foyer delle istituzioni, non nel cuore della scena.
Insomma, sono i «giochi di Palazzo» sulla pelle degli italiani che Giorgia Meloni è tornata a denunciare proprio il 2 giugno scorso, festa della Repubblica, rilanciando come antidoto naturale proprio il primo punto del cosiddetto riformismo nazionale: il Presidente della Repubblica «eletto direttamente dagli italiani». Un’invocazione – tradotta in una campagna di piazza e di partecipazione popolare – che riecheggia spesso a destra non solo e non tanto in veste mitologica e identitaria ma proprio per la sua “puntualità” strategica rispetto all’agenda politica e per la copertura che garantirebbe alle necessità e ai diritti di quei «cittadini» che già Almirante ai tempi non voleva più «sudditi» ma protagonisti nei confronti dello Stato.
Se nella mischia di poteri e influenze sovranazionali che caratterizzano pesantemente questa fase un’investitura diretta, dal basso, del capo dello Stato è un “faro” fondamentale per tutelare in pieno l’interesse nazionale, anche in chiave interna il presidenzialismo proposto dalla leader di FdI non è più rinviabile. Non solo come saldatura fra due necessità – la rappresentanza e la governabilità, in nome delle quali si susseguono da decenni sistemi elettorali che tirano maldestramente la coperta da un lato o dall’altro – ma anche e soprattutto come garante dell’unità e armonizzatore delle richieste di maggiore autonomia provenienti dai territori. Più “liberi” nell’area, dunque, perché più “uniti” a difesa del perimetro nazionale.
Un’elaborazione lunga e comprovata, certo, ma anche trasversale se è vero come è vero che tutto questo rappresenta il punto qualificante già inserito nel programma elettorale con cui la coalizione di centrodestra si è presentata alle Politiche del 4 marzo. Riportarlo al centro proprio in questa fase nella quale aleggiano ancora una volta sul destino dell’Italia i portatori di interessi anti-nazionali è un atto di responsabilità. Ma anche un messaggio chiaro ai partner, dato che una Repubblica dotata di un governo con più potere di rappresentare direttamente e di esercitare la sovranità su preciso mandato dei cittadini non incarnerebbe solo una cura più che necessaria all’annosa crisi del nostro sistema istituzionale (lento, ingolfato da riti goffi ed antistorici), ma porterebbe l’Italia in linea con la democrazia delle leadership forti, perché autorevoli e legittimate, che alimenta le nazioni protagoniste del mondo multipolare.
Una “Nuova Repubblica” a misura di italiani, dunque. Allora sì che diventerebbe una Terza Repubblica dei sogni.