Questa domenica si concluderà il tempo pasquale con la solenne festività di Pentecoste, facendo memoria del dono dello Spirito Santo, ricevuto dagli apostoli e da Maria, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Si trattava originariamente di una festività ebraica, in cui veniva ricordata l’alleanza tra Dio e il popolo eletto, sancita dalla consegna delle tavole della legge a Mosè, sul monte Sinai.
Nel libro degli Atti degli Apostoli si narra, con dovizia di particolari, gli eventi di quel giorno: un “fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì la casa dove stavano” (At 2.2), a cui segue l’apparizione di “lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro” (At 2.3), colmando i presenti di Spirito Santo e donando loro la conoscenza delle lingue, nonché il coraggio di predicare il Vangelo, la buona notizia.
Il fuoco e il vento possiedono un significato preciso: alludono, infatti, all’amore di Dio che scalda il cuore dell’uomo, smuovendolo dal proprio intorpidimento fisico e spirituale, aiutandolo a incamminarsi lungo la via tracciata dal Signore. Una via da spendersi nell’amore, nella carità, nel servizio e nella testimonianza. Il dono coincide con il donatore: Dio è amore e dona se stesso all’umanità intera.
Gli apostoli non si limitano ad accogliere passivamente lo Spirito, ma sin da subito ne avvertono l’istanza di responsabilità, insita in tale incontro. Sono chiamati ad aprirsi al mondo, ad accettare la sfida della relazione con l’altro, a rischio della propria stessa vita. Non sono dei privilegiati: il dono ricevuto deve essere condiviso.
Lo Spirito Paraclito, ossia avvocato difensore, è persona della Santissima Trinità che infonde negli apostoli forza, determinazione e sapienza, aiutandoli ad affrontare tribolazioni e prove gravose. L’uscita dal cenacolo è metafora di liberazione dalle proprie incertezze, inizio di un nuovo cammino di fede, tempo di annuncio e di salvezza. La folla incuriosita e turbata dall’evento prodigioso si raduna, si interroga, chiede delucidazioni e certezze. Gente diversissima per cultura e provenienza geografica: “Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia, vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio” (At 2.5-11).
Il messaggio è per tutti, ma non può essere imposto. Dio lascia all’uomo la libertà di respingerlo poiché nessun amore autentico e veritiero contempla forme di costrizione. Il mondo si divide, ieri come oggi, tra credenti e scettici: “Tutti erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: Che cosa significa questo?”. Altri invece li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di vino dolce” (At. 2.12-13).
Pietro prende la parola, declama un lungo discorso, teso a certificare un fatto, cioè che “Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene – consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano dei pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2.22-24). Gesù è il Messia, il Salvatore promesso a Davide, mille anni prima, dalle vive parole del profeta Natan (Cfr. 2Sam 7). Il lungo discorso di colui che diverrà il primo pontefice della storia si chiude con un appello, un’incitazione, al ravvedimento: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2.37-38).
L’invito non cade nel vuoto, non rimane inascoltato. In molti, circa tremila persone, decidono di battezzarsi e di mutare vita, impegnandosi ad adottare uno stile di vita differente, improntato all’insegnamento di Gesù: “Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone. Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che si erano salvati” (At 2.41-47). Un’esistenza comunitaria nel segno della preghiera, della condivisione e della solidarietà, vissute con letizia, dignità e fede. Ci troviamo di fronte, è doveroso ammetterlo, ad un ritratto ideale che non sarebbe stato seguito alla perfezione da tutti i discepoli, come ci verrà ampiamente documentato dalle lettere paoline, spesso critiche nei confronti della condotta tenuta dai primi cristiani. Ma la via è comunque tratteggiata, indicata con chiarezza dal testo neotestamentario.
Sorprende, quindi, come una festività così importante per la fede cristiana sia oggi quasi dimenticata, ridimensionata rispetto al Natale e alla Pasqua. Le conseguenze non sono trascurabili dal punto di vista della piena ortodossia del credo professato: non festeggiare Pentecoste significa coltivare una fede poco trinitaria, in quanto dimentica dello Spirito Santo.
Il cristianesimo più che una religione potrebbe definirsi una “relazione”, un rapporto d’amore in e con Dio, Signore uno e trino, un legame con Colui che si fa storia, nella misteriosa gratuità dell’alleanza, dell’amicizia, perpetuamente, e generosamente, profusa all’umanità intera. Una fede mutilata di qualsiasi riferimento allo Spirito Santo rischia di impoverirsi, di abbracciare una prospettiva eccessivamente monistica, incapace di intendere, e di vivere, in pienezza, la dimensione relazionale e dinamica della storicità. La Trinità cristiana, mirabile sintesi di trascendenza e immanenza, di incontro tra divino e umano, abbraccio vitale tra spirito e corpo, è un unicum nel variegato e complesso mondo dell’esperienza religiosa.
È tempo di riscoprire il significato autentico delle nostre feste, di recuperare le radici cristiane dell’Europa, di mettersi in ascolto del Logos, della Parola, del Verbo incarnato che dalla sommità della croce, compiendo la volontà del Padre, rese lo Spirito al mondo intero.