La Vita è sacra. Sembrerebbe un concetto lapalissiano, cristallino; eppure, oggi quanto mai, va ribadito a gran voce e con forza, in un mondo nel quale si afferma sempre più la “cultura della morte”, mascherata sotto i nomi, ormai abusati, di libertà e diritto.
Con la Marcia per la Vita, le migliaia di persone scese in piazza a Roma, hanno voluto affermare proprio questo, la sacralità della Vita, dal concepimento (e non, dunque, dalla nascita) alla morte naturale.
La marcia quest’anno è stata dedicata al piccolo Alfie Evans, morto circa un mese fa a seguito della decisione del tribunale inglese, in accordo con l’ospedale nel quale il bimbo era ricoverato, di interrompere le cure necessarie alla sua sopravvivenza. Nonostante la battaglia legale intrapresa dai suoi genitori e la mobilitazione internazionale (anche il nostro Governo ha fatto la sua parte, conferendo al bimbo la cittadinanza, sperando che questo fosse sufficiente per permettere il suo trasferimento in un ospedale italiano), Alfie è stato staccato dai macchinari che lo tenevano in vita ed è morto. Prima di lui, una sorte simile era tristemente toccata a Charlie Gard, altra storia drammatica che aveva commosso il mondo e tenuto tutti con il fiato sospeso, da Papa Francesco a Donald Trump.
“Non uccidete il futuro”, così recita uno dei tanti striscioni innalzati al corteo. Credere nella sacralità della Vita significa prima di tutto rifiutarsi di accettare passivamente una società nella quale un bimbo malato possa essere ritenuto “inutile” e per questo lasciato morire. Chi è sceso in piazza, è stato definito un “barbaro”. Difendere, dunque, il diritto di vivere è una barbarie? In un Paese nel quale sempre di più ci si batte per il diritto di morire, per la DAT, per l’eutanasia, appare certamente ipocrita attaccare chi decide di schierarsi dalla parte della difesa della Vita come valore assoluto. La legge 194/78, quella appunto che regola l’interruzione volontaria di gravidanza non è in discussione; non c’è alcun intento liberticida. Piuttosto, si tratta di permettere ad una donna di avere altre possibilità alternative all’aborto, promuovendo politiche a favore della maternità e della famiglia invece che incentivare le pratiche abortive che, per altro, rappresentano un momento drammatico, talvolta un evento traumatico, che la maggior parte delle donne che vi hanno fatto ricorso continuano a ricordare per il resto della vita. Perché la Vita venga sempre vista come un dono e non come un peso da gettare dalla rupe Tarpea, anche quando è difficile, quand’anche è dolorosa o meravigliosamente imperfetta. Perché non ci siano mai più altri Alfie Evans e Charlie Gard, mai più.