I democratici non perdono occasione per accusare Donald Trump di essere “un pericolo per la democrazia” per aver messo in discussione i risultati delle elezioni del 2020. Eppure, i media mainstream si guardano bene dal ricordare che sono stati proprio i democratici a seguire questo stesso schema ogni volta che hanno perso un’elezione presidenziale, dal 2000 a oggi. Ogni sconfitta subita da un loro candidato è stata accompagnata da accuse di brogli, manipolazioni o interferenze esterne.
Nel capitolo 17 di “Mai Arrendersi – Il vero Donald Trump”, esamino a fondo questo paradosso. Il comportamento ricorrente dei democratici dimostra che la democrazia sembra funzionare solo quando vincono loro: se è un candidato repubblicano a prevalere, allora il sistema diventa subito sospetto e illegittimo. Questa è la narrazione che i democratici hanno portato avanti in tutte le elezioni perse dal 2000 ad oggi.
La mia riflessione parte proprio dalle prime elezioni del nuovo millennio, quando George W. Bush sconfisse Al Gore. Ricorderete il celebre “Florida recount” che divenne un vero e proprio scandalo mediatico e legale. Per settimane, i democratici non fecero altro che insinuare che la vittoria fosse stata truccata e che Gore fosse la vittima di un “furto elettorale”. Membri di spicco del Partito Democratico, come Alcee Hastings e Maxine Waters, sollevarono accuse pesanti di frode. Ma nonostante il clamore mediatico, nessuna di queste accuse portò a una revisione sostanziale del risultato. Tuttavia, il dubbio era stato gettato, e la legittimità di Bush come presidente venne messa in discussione.
E questo schema si ripeté anche nel 2004, quando Bush fu rieletto contro John Kerry. Anche in quel caso, i democratici non accettarono la sconfitta e ricorsero a accuse di irregolarità nell’hardware e nel software delle macchine elettorali. Vi ricorda qualcosa? Ancora una volta, insinuarono che i risultati fossero stati manipolati, e questo atteggiamento si perpetuò nelle elezioni del 2016, quando Trump sconfisse Hillary Clinton. Da lì nacque il famigerato “Russiagate”, che per anni dominò i titoli dei giornali, insinuando che Trump fosse stato aiutato dal Cremlino a vincere le elezioni e rivelandosi, poi, come la più grande fake news della storia (che racconto nel libro e che riprenderò nel prossimo articolo).
E poi, arriviamo al 2020. Quando Trump sollevò dubbi sui risultati elettorali, i democratici e i media lo accusarono di minare la democrazia, come se mettere in discussione l’esito delle elezioni fosse un crimine mai visto prima. Eppure, erano gli stessi che per vent’anni avevano fatto la stessa identica cosa.
Nel capitolo, sottolineo come questa dinamica sia diventata un vero e proprio modus operandi dei democratici: quando non vincono, mettono in dubbio il sistema; quando vincono, accusano gli altri di non rispettarlo. Ma è proprio qui che sta il vero pericolo: in questo doppio standard che mina la fiducia degli americani nelle istituzioni stesse. È ironico pensare che quelli che oggi accusano Trump di “attaccare la democrazia” siano gli stessi che, per anni, non hanno accettato l’esito delle elezioni, ricorrendo a teorie complottistiche e insinuazioni per screditare le vittorie repubblicane.
Non avendo mai accettato il risultato di un’elezione persa, i democratici sono gli artefici di questo clima di sfiducia nei confronti delle elezioni, non Trump. Eppure, oggi, sono proprio loro a pretendere totale fiducia nel sistema quando la vittoria va a loro favore, senza accettare dubbi o critiche da parte degli altri. Qualcuno dovrebbe spiegare ai democratici che chiamarsi così non li rende i proprietari della democrazia.