Quante volte ci siamo scandalizzati per la deriva autoritaria del Governo, quante volte ci siamo indignati per l’assoluto disprezzo mostrato per il Parlamento, che poi è disprezzo per il Popolo e quante volte ci siamo affannati a chiedere che la nostra bistrattata democrazia tornasse a rifiorire nelle urne, con il voto, consentendo agli italiani di esprimersi.
E non è certo la prima volta che ci confrontiamo con questa sciagura, per quanto il governo rosso giallo sia probabilmente il peggior ircocervo politico che si sia mai avvicendato a Palazzo Chigi, ma è dal 2011, dal famigerato governo Monti, che assistiamo quasi sopraffatti a governi di ogni foggia e colore, decisamente discordanti con la volontà espressa dal corpo elettorale, perché frutto di intese di palazzo e alleanze poco chiare.
Negli anni, tutto questo ha portato alla disaffezione nei confronti della politica e ad un crescente astensionismo, che è figlio di una evidente volontà punitiva nei confronti del trasformismo spudorato.
Ma tecnicamente, per quanto i soloni de noantri, democratici ad intermittenza, ci dicano “è la democrazia parlamentare baby!”, cosa consente alla politica di plasmare come il pongo ogni risultato elettorale e consegnarlo alla Patria stravolgendo totalmente la volontà del popolo?
Occorre analizzare il divieto di mandato imperativo, di cui all’articolo 67 della Costituzione, norma già presente nello Statuto albertino, figlia di un’impostazione liberale che esaltava le garanzie di libertà e indipendenza dei parlamentari e che impone che il parlamentare rappresenti solo la Nazione e non il partito di appartenenza. Principio che garantisce sicuramente l’autonomia del parlamentare, ma che favorisce i cosiddetti salti della quaglia, con deputati e senatori che migrano di gruppo in gruppo, in spregio alla volontà degli elettori e alleanze create in laboratorio, sideralmente distanti dai proclami di campagna elettorale.
Ma è sensata l’abolizione del divieto di mandato imperativo così come chiesta da alcune forze politiche (Movimento 5 stelle docet), con il malcelato fine di ingabbiare i voti dei parlamentari nelle decisioni dei partiti, che poi una volta al potere tessono la tela delle alleanze?
Sembra di no, e basta analizzare il reale perimetro del divieto di mandato imperativo così come voluto dal legislatore costituente per argomentare. Ed infatti, l’architettura costituzionale non può prescindere dal ruolo centrale ed esclusivo che i partiti hanno assunto nella dinamica della rappresentatività. I partiti sono collettori di consenso, presentano una visione politica e programmatica che viene di volta in volta proposta all’elettorato il quale, con il voto, consente al partito di esprimere i rappresentanti che saranno chiamati a concretizzare gli obiettivi dichiarati.
Esiste dunque un rapporto di natura trilaterale tra elettori, eletti e partiti politici, in questo rapporto di natura trilaterale, non si può svilire il principio fissato dall’articolo 67 della Costituzione che è garanzia di autonomia e libertà per gli eletti che devono essere posti nelle condizioni di perseguire l’interesse nazionale senza spinte o condizionamenti esterni.
Tuttavia, il principio di cui all’art. 67 Cost. deve essere letto unitamente al fondamentale principio di sovranità popolare, scolpito in apertura della Carta costituzionale e che costituisce la chiave di volta per l’interpretazione autentica della democrazia parlamentare che noi conosciamo.
Introdurre dunque l’obbligo di mandato del partito nei confronti dei propri eletti costituirebbe una iattura e sancirebbe il definitivo scollamento tra la volontà popolare e i rappresentanti del popolo in Parlamento, rendendo questi ultimi schiavi delle segreterie di partito.
Occorre, invece, recuperare i princìpi di libertà e indipendenza fissati nella Costituzione, rafforzando il principio di sovranità e restituendo al popolo la dignità e la funzione che la Carta costituzionale ha inteso attribuirgli per il tramite dell’articolo 1.
E Dunque un sistema per evitare il trasformismo che deriva dal divieto di mandato imperativo e contestualmente riscoprire il vero e sano vincolo di mandato che è quello sussistente tra eletti ed elettori c’è ed è quello che ha immaginato Fratelli d’Italia.
Al Senato a firma del Senatore Fazzolari ed alla Camera a firma del Presidente Giorgia Meloni è stato depositato un disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 67 Cost. e dell’art. 92 Cost., per il tramite del quale si chiede che i partiti dichiarino prima del voto le formazioni politiche con cui saranno disposte a formare un’alleanza una volta vinte le elezioni e che il Presidente della Repubblica, nella fase delle consultazioni, sia obbligato a tenere in considerazione queste dichiarazioni per la formazione dell’esecutivo.
In questo modo, il Parlamentare resta libero dai diktat delle segreterie di partito, ma i partiti restano vincolati alle promesse elettorali fatte al popolo in campagna elettorale, senza poter più farsi beffe della volontà popolare creando governi a piacimento nelle segrete stanze del potere.
Ed ecco ristabilito il giusto ordine delle cose, ecco restituita al corpo elettorale la sovranità che ormai sembra appartenere al popolo solo in via formale, ecco arginati gli inciuci, i rimpasti e i governi improvvisati e senza una visione politica unitaria. Ecco ristabilita la democrazia, per il tramite dei principi di coerenza e di lealtà elettorale, imponendo ai partiti di rispettare gli impegni assunti in campagna elettorale e vincolandoli al perseguimento, durante la legislatura, degli obiettivi dichiarati.
Basterebbe solo che la coerenza e lealtà che Fratelli d’Italia sente di dovere ai propri elettori fosse un sentimento condiviso alla Camera ed al Senato anche dagli altri partiti politici e che si trovasse convergenza su questa che è una ferma battaglia per la democrazia.