Quando bisogna iniziare ad affrontare questioni politiche e strategiche delicate, la possibile e auspicabile fine della guerra in Ucraina è una di queste, servirebbe parlare a livello pubblico solo nel momento in cui è indispensabile e lavorare a testa bassa dietro le quinte. Dovrebbero sentire questa responsabilità sia i leader politici e di governo che gli addetti alla informazione, ma ciò non accade sempre.
È senz’altro positivo e promettente che sia stata avviata, grazie a Donald Trump, la discussione riguardante l’inizio di negoziati mirati a mettere la parola fine al conflitto in Ucraina. Dopo tre pesanti anni, qualcosa si muove, ma il dibattito ha preso una piega non utile e vogliamo ritenere che il lavoro diplomatico, non sempre esternato pubblicamente per ovvie ragioni, sia migliore del vociare mediatico.
Su quello che dovrà essere il futuro dell’Ucraina, hanno preso il sopravvento diffidenze e difformità personali, che non meriterebbero eccessivo rilievo epperò sono per i giornali, in particolare per gli affiliati al mainstream liberal mondiale, come i topi per i gatti. È stato dato maggiore risalto alla litigata planetaria Trump-Zelensky che ai ragionamenti forti e nel contempo pragmatici espressi dal vicepresidente USA JD Vance alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza e in alcune interviste. Volodymyr Zelensky ha mostrato impazienza in occasione del vertice di Riad, Arabia Saudita, fra rappresentanti americani e russi, e forse sarebbe stata più opportuna da parte del presidente ucraino una sana attesa perché nella capitale saudita si è trattato anzitutto di dare avvio, per così dire, alla rottura del ghiaccio tra Washington e Mosca dopo un lungo periodo di incomunicabilità, e non avrebbe dovuto essere considerato come un dramma il mancato invito di una delegazione ucraina. Da lì, sono partite le reazioni trumpiane che stanno facendo discutere anche all’interno dello stesso Partito Repubblicano USA.
Ciò a cui occorre pensare e che conterà in maniera assoluta si chiama esito finale dei negoziati per la pace in Ucraina. Quando si avrà a che fare con esso, in quel preciso momento i media globali potranno scatenarsi e magari accusare o meno la pax trumpiana di essere funzionale soltanto agli interessi spartitori delle grandi potenze, USA e Russia, e lesiva della sovranità e della integrità territoriale dell’Ucraina. Per ora, oltre alle citate baruffe a uso e consumo dei media, non c’è molto di concreto e comunque non è affatto assodato che l’Amministrazione Trump, al di là dei dissapori con Zelensky, abbia deciso, senza possibilità di ritorno, di fare propri tutti i desideri di Vladimir Putin, accordandosi in modo bilaterale con la Russia e umiliando così sia Kiev che l’Unione Europea.
Questo è l’auspicio delle sinistre mondiali, come ha ricordato Giorgia Meloni nel suo intervento alla CPAC, la convention annuale dei conservatori americani in corso a Washington. I liberal e i radical-chic occidentali sperano che Donald Trump si allontani dall’Europa per potere poi puntare il dito contro il conservatorismo, sia statunitense che europeo, colpevole di disintegrare il fronte delle democrazie a tutto vantaggio degli autocrati alla Putin. La pace giusta, lo sottolinea sempre la premier Meloni nelle sue parole indirizzate agli amici conservatori d’oltreoceano, deve passare attraverso un riconoscimento occidentale di precise garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che dall’Italia continua a essere vista come il Paese aggredito e non responsabile della escalation militare. Affinché si realizzi una pace giusta e duratura non è possibile chiedere rinunce solo alla parte ucraina e l’aggressore russo deve cedere su qualcosa.
Circa le garanzie di sicurezza da tenere presente per Kiev, Trump non è mai stato evasivo e ha affermato di vedere con favore l’eventuale presenza sul suolo ucraino di truppe europee di peacekeeping e il Regno Unito ha affermato di poter inviare 30mila soldati.
Determinata informazione riporta solo ciò che le fa comodo, ma, per esempio, le parole di JD Vance pronunciate a Monaco e poco dopo la Conferenza avrebbero meritato un’attenzione maggiore e meno condizionata da pregiudizi.
Il vicepresidente americano, oltre a dire di credere nella prosecuzione di contatti diplomatici sempre più fitti tra Stati Uniti e Ucraina per fermare la guerra, ha esortato l’Europa a cambiare registro su tanti argomenti, dalla sicurezza mondiale ai valori identitari e alle migrazioni illegali di massa, ma il suo è stato un accorato appello di chi crede nell’Occidente, nel destino e nei principi comuni che legano indissolubilmente gli Stati Uniti d’America e l’Europa. Insomma, Vance ha strapazzato il Vecchio Continente in qualità di amico che non sopporta vedere il proprio alleato indebolirsi con talune derive, e non come un isolazionista insofferente a priori verso l’altra sponda dell’Atlantico