Tamponi a tappeto: è l’unico modo per uscirne

Quando il primo paziente affetto da Covid-19 è arrivato in un ospedale cinese con difficoltà respiratoria acuta a metà dicembre 2019, c’era incertezza su ciò che stava causando questi sintomi. I patogeni noti furono rapidamente esclusi: non si trattava di SARS, MERS o influenza e, rapidamente, fu rilevato un nuovo coronavirus.

Quando i medici hanno provato a lanciare l’allarme, la polizia li ha minacciati e i funzionari sanitari inizialmente hanno dichiarato di non avere prove chiare della trasmissione da uomo a uomo.
Quando la Cina ha finalmente informato l’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’epidemia attraverso il suo ufficio cinese il 31 dicembre 2019, era chiaro che il governo era preoccupato privatamente che non sarebbe stato facile da contenere o gestire.

Al 23 gennaio, la Cina aveva 571 casi e un bilancio di morte di 17. Gli specialisti in malattie infettive che creano modelli predittivi di epidemie hanno immediatamente lanciato l’allarme per la nuova malattia da coronavirus, nota come COVID-19.

Il giorno seguente il governo centrale cinese metteva in quarantena Wuhan, città focolaio dell’epidemia e altre città della provincia di Hubei, riguardando 56 milioni di persone.

Si fermano immediatamente i collegamenti stradali, ferroviari e aerei. Si decide il blocco totale dell’economia per evitare che i luoghi di lavoro diventino un moltiplicatore dei contagi. Nel capoluogo Wuhan le regole sono ferree. In poco tempo la città diventa fantasma, strade vuote, negozi chiusi, parchi disabitati, spesa alimentare consentita solo online e consegne per comprensori al fine di ridurre al minimo i contatti.

Dopo oltre un mese e mezzo, la Cina bloccata inizia a vedere i risultati delle misure. L’aumento esponenziale dei casi inizia ad appiattirsi, i pazienti cominciano a lasciare gli ospedali di Wuha. La Cina nel complesso è riuscita a mantenere i casi confermati inferiori a 90.000.
Ad oggi dopo mesi di chiusura a causa dell’epidemia, in Cina l’emergenza è finita: a Wuhan l’8 Aprile termina la quarantena di massa.

L’Italia, che ha registrato i suoi primi casi di COVID-19 il 30 gennaio, ha ad oggi (25 marzo 2020) un bollettino che potremo definire di guerra, con i contagi che superanno abbondantemente quota 50.000 attestandosi a 54.030. I morti, secondo quanto comunicato ieri dal commissario Borrelli arrivano a quota 6.820, i guariti 8.326.

La severa risposta cinese al diffondersi del virus avrebbe dovuto essere da esempio per gli altri paesi, ma non tutti i leader ne hanno tratto vantaggio. Prima che l’epidemia raggiungesse le loro coste, i capi di stato in tutto il mondo hanno deciso di pianificare (in alcuni casi sarebbe più giusto dire non pianificare), questo focolaio a modo loro. Alcuni, come il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ne hanno minimizzato i pericoli, mentre altri, come il presidente sudcoreano Moon Jae-in, hanno agito in modo rapido e deciso.

Il confronto tra Italia e Corea del Sud mostra quanto possano essere drammatiche le differenze. Il 1 ° marzo scorso l’Italia ha registrato 1577 casi e 41 morti, mentre la Corea del Sud aveva avuto 3.736 casi e 21 morti. Tre settimane dopo, il 22 marzo, i contagiati in Italia erano esplosi a 59.138, con 5.476 morti, mentre il numero dei contagiati totali della Corea del Sud era semplicemente raddoppiato a 8.897, con 104 morti.
Il successo di contenimento della Corea del Sud è stata sicuramente la velocità e una “politica” di test di massa, tracciabilità rigorosa dei contatti e quarantena obbligatoria per chiunque si trovasse vicino a un corriere del virus.

Rileviamo infatti che il Paese, con una popolazione di 51 milioni, sottopone a test oltre 20.000 persone al giorno, integrando app che non solo tengono traccia degli spostamenti degli individui che si sono dimostrati positivi, ma li avvertono anche se potrebbero essere stati esposti a un caso noto.

Questo significa effettuare il test al momento dell’insorgenza lieve dei sintomi, anche in presenza di un solo sintomo come mal di gola o tosse, cioè in una fase precoce dell’infezione. E poi abbinare il test a una tracciatura iper-tecnologica sia di una persona che dei suoi contatti in modo rapido.

In Corea del Sud qindi la scelta vincente, a differenza che da noi, è stata quella di fare test a tappeto, per individuare quanti più infetti possibili, e per trovare anche i casi non sintomatici. L’isolamento dei positivi ha permesso di evitare il lock down totale del paese, mantenendo negozi e attività commerciali quanto più possibile aperti.

E’ l’unica nostra salvezza. Ma ancora la decisione non è stata presa. Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito in queste ore si sta svolgendo un dibattito pubblico sul fatto che i test siano importanti o meno, in particolare per coloro che hanno solo sintomi minori, ma le cifre parlano da sole: al 20 marzo, il tasso di test della Corea del Sud era di 6.148 per milione di persone, mentre il Regno Unito stava testando solo 960 persone ogni milione e gli Stati Uniti solo 314.

Una decisione pericolosa e miope, come rivela l’inversione a U fatta una decina di giorni fa del primo ministro Boris Johnson meno di una settimana dopo, quando si è impegnato in un obiettivo di 25.000 test al giorno, come lui stesso ha rilevato.

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Letizia Giorgianni
Letizia Giorgianni
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